[interpreti] S. Wenkoff, G. Jones, B. Weikl, H. Sotin
[direttore] Colin Davis
[orchestra] festival di Bayreuth
[regia] Götz Friedrich
[regia video] Thomas Oloffson
[formato] 4:3
[sottotitoli] Ing., Fr., Ted., Sp., Cin.
[2 dvd] Dg 004400734446
Nell’ampio solco tracciato dal Sessantotto sulla cultura europea, crebbe anche nei teatri un deciso interesse verso gli artisti cresciuti nel socialismo d’oltrecortina. Tra questi, immensa autorità aveva da tempo rivestito Walter Felsenstein, il direttore della Komische Oper di Berlino Est: per riflesso, l’assunsero presto i suoi più dotati allievi, da Joachim Herz a Ruth Berghaus, da Harry Kupfer a Götz Friedrich. Proprio a quest’ultimo (che aveva già messo in scena parecchio a Berlino e Brema, ma ancora non s’era misurato con Wagner), Wolfgang affidò nel 1972 il nuovo Tannhäuser destinato a prendere il posto del discussissimo ma anche incensatissimo – con ragione – spettacolo del fratello Wieland morto quattro anni prima.
Idea centrale, fu il metaforizzare nella vicenda la lotta dell’artista dapprima contro la società, poi con se stesso e il proprio lato oscuro ingigantito dalla solitudine. Da cui Elisabeth e Venus quali facce opposte della stessa medaglia, entrambe impersonate quindi da Gwyneth Jones, dove l’attrice sublime convive con cantante discutibile ma ancora capace (nel 1978, quando ha avuto luogo la registrazione) di far dimenticare col portentoso fraseggio le non certo poche note bruttarelle. Durante l’ouverture, Tannhäuser entra in scena in fuga disperata dal mondo ipocrita della Wartburg: appoggia la fronte alla sua lira, e il primo piano lo mostra come dietro le sbarre d’una prigione, stilizzata anche nei lunghi canapi che intersecano la scena, sorta di incubo dove s’allacciano le metafore della sua fantasia e del suo esserne prigioniero, riassunte in una Venus che al prim’atto compare col volto coperto da una maschera mortuaria divenuta vero e proprio teschio al terz’atto, quando la Dea dell’amore svela la sua autentica natura di vecchia orribile dalle carni sfatte. Il Langravio entra in scena su una sedia gestatoria con la quale si fa portare a caccia, e sulla quale accoglie gli invitati alla tenzone canora, sorvegliati da una polizia abbastanza inquietante, sormontata com’è da lunghi e stretti vessilli pendenti dall’alto, coi colori della Repubblica Federale ma con la forma chiaramente allusiva a quelli del Terzo Reich. E alla conclusione, dopo gli annunci della morte di Elisabeth e del miracolo del pastorale fiorito, Tannhäuser viene isolato in un cerchio di luce avvolto da un buio rotto solo alle ultime battute, quando il palcoscenico appare già riempito da una folla non di pellegrini penitenti, ma di gente comune in abito da lavoro (che Oloffson troppo prudentemente riprende molto, troppo da lontano, sfumandone così l’identificazione): la salvezza non arriva quale dono dall’alto, ma ha da essere conquistata giorno dopo giorno. Da cui scandalo inaudito nel ’72, ma trionfo già a partire dall’anno seguente, tanto per cambiare.
Davis dirige molto bene ancorché il suo pronunciato lirismo non calzi troppo col tentativo di Friedrich di secolarizzare la Sacra Rappresentazione di Wieland provandosi a interrogarsi su cosa oggi significhino concetti quali redenzione, grazia, peccato. Spas Wenkoff ha le note ma pochissimo della torturata complessità del personaggio, specie con regia siffatta. Intere spanne al di sopra di tutti, il Wolfram di Bernd Weikl: la sua aria alla stella della sera è un momento di pura beatitudine vocale.
Elvio Giudici