La sua ultima “creatura” s’è chiamata “Apologia del Quartetto”, un ciclo di quartetti d’archi dalle avanguardie storiche del Novecento a oggi che ha miracolosamente racchiuso in una manciata di appuntamenti tutta la parabola che da Alban Berg porta Eliott Carter, coinvolgendo le migliori giovani formazioni italiane. Mario Messinis ha sempre avuto il dono della miniaturizzazione: concentrare grandi quantità di temi in poco spazio. E così, mentre lascia dopo quasi trent’anni l’incarico di direttore artistico di Bologna Festival – la sua esperienza più lunga, dopo esser stato due volte direttore artistico della Biennale Musica di Venezia (1979-1982 e 1992-1996), direttore artistico dell’Orchestra Rai di Torino (1986-1989) e di Milano (1989-1994), poi sovrintendente alla Fenice subito dopo l’incendio (1997-2000) – si spalanca di colpo un vuoto che non riguarda solo Bologna, ma tutta la cultura musicale italiana. “Io ho solo cercato di allargare i repertori – racconta da Venezia, dov’è nato e dove vive da sempre -, partendo dalla presa d’atto che le normali programmazioni spaziano solo da Mozart a Mahler. Non dico sia bene o male, ma è un dato oggettivo”.
Il metodo Messinis ha trovato nella rassegna “Il nuovo l’antico” (senza punteggiatura, come a voler sottolineare la continuità delle idee) il suo campo d’espressione preferito e, garantisce la neo sovrintendente di Bologna Festival Maddalena da Lisca (a fianco con Messinis e il presidente Federico Stame all’inzio del loro sodalizio, ndr), il percorso sarà mantenuto nelle sue linee guida anche per il futuro. A guardarne oggi gli impaginati, si resta ammirati dall’agilità con cui si passa dalla polifonia fiamminga alla musica di Sciarrino: tutto collegato con una rete di sottili rimandi che soprendono e creano dibattito. Messinis riuscirebbe a fare storia della musica tracciando una retta imprevedibile da “a” a “b”. È quello che ha fatto con il suo ultimo viaggio nel quartetto, dal “radicalismo della Scuola di Vienna fino alle ultime attuali esperienze spesso nel segno della continuità, in un dialogo perenne con gli archetipi della tradizione, da Holliger a Carter, da Dutilleux a Donatoni, da Vacchi a Gervasoni”. La ricerca ossessiva della continuità anziché della frattura: “La punta più estrema della timbrica astratta è esperita da Stroppa, la neo-semplicità dal primo Cage, la tumultuosa esperienza postmoderna da Crumb, l’ultimo profeta americano”, spiega entusiasmandosi, senza dimenticare “i momenti rapsodici” di una strana coppia, Janácek e Malipiero. Mai nostalgico, sempre proiettato verso nuovi collegamenti, perché “la categoria del ‘progresso’ non ha un valore esclusivo; l’esperienza creativa vive spesso nella coincidenza di novità e memoria”. E nel Quartetto, uno dei generi più battuti a Bologna Festival, ha ritrovato “la luce del suono ‘storico’ senza artifici acustici”. Indimenticabili anche le sue ricerche monografiche, come quella del 2007 con il “Progetto Sciarrino”, che vide l’esecuzione di Vanitas, Muro d’orizzonte, Il silenzio degli oracoli, Come vengono prodotti gli incantesimi?, Quaderno di strada per baritono e complesso da camera, un “taccuino di viaggio” tra poesia, graffiti e lacerti realistici. “È uno dei compositori contemporanei più significativi – sottolinea Messinis – in cui il radicalismo della ricerca timbrica, della drammaturgia del silenzio e della ideazione surreale non cela la reviviscenza della storia”. Ma monografia, appunto, non significava chiusura verso il passato: in quel programma venivano sistematicamente accostati lavori di Ravel, Debussy, Mozart, autori che hanno inciso in maniera diretta o indiretta su Sciarrino. Scoprirlo, non senza meraviglia, era la moneta con cui il pubblico veniva ricompensato. A cavallo degli anni Dieci del Duemila si studiarono le coppie: Bartók-Ligeti, poi Debussy-Boulez, Gubaidulina-Sostakovic e poi ancora un’altra tappa fondamentale con Schoenberg e Rihm. “Rihm è stato il massimo compositore tedesco della generazione di mezzo – annota Messinis – tendeva a prendere le distanze dall’estremismo dell’Avanguardia, pur senza rinnegarne i principi di fondo. Di qui il forte legame con il Novecento storico viennese e con l’Espressionismo. È questa la ragione che mi ha spinto a dedicargli un ciclo”. Il gioco è diventato a tre con Chopin-Szymanowski-Lutoslawski, un filo rosso polacco intrecciato fra “tre autori nazionali con interessi rapsodici, tutti con lo sguardo rivolto a Parigi”. Tracciare una sintesi di 27 anni di attività è impossibile, ma “insistere nel proporre musica nuova, che sia rinascimentale o novecentesca, ripaga sempre”, commenta Messinis, che rivendica il merito di aver proposto in prima italiana il Solomon di Handel, “superiore al Messiah per costruzione complessiva e in tutte le zone cantabili, con arie molto più intense, una partitura di ricchezza sconcertante”, ascoltata nel 2018 in esclusiva italiana.
Poche, invece, le novità assolute: “I maestri del Secondo Novecento rischiavano di scomparire: sto parlando di Kagel, Maderna, Stockhausen, Kurtág: ho sempre pensato che in Italia ci fosse bisogno di presentare le grandi opere che fanno storia a sé, con un segno forte, e possibilmente legate a un brano più conosciuto e collegato, per non disorientare il pubblico. Per le novità, invece, c’è sempre la Biennale di Venezia”, dove uno dei suoi progetti più arditi e apprezzati è stato “Al di là del tempo, momenti di religiosità nella musica contemporanea”. Il merito è di aver reso desiderabili pezzi come Kafka-fragmente di Kurtág, “composizioni solitamente destinate ai festival specializzati”, anche se, annota con rammarico, “il Novecento storico non si fa ancora mai abbastanza. E per i grandi autori del Secondo Novecento, pensiamo a Nono, c’è un preoccupante disinteresse nelle programmazioni delle grandi istituzioni”.
Luca Baccolini
(intervista pubblicata sul numero di gennaio 2020 di “Classic Voice”)