The George Szell Edition – vol. 1, 5, 6, 7 8

direttore George Szell
pianoforte Rudolf Firkusny
orchestre di Cleveland, Filarmonica di New York
cd United Archives UAR 009, 014, 015, 016
3 cd United Archives UAR 013 (reg. or. 1947-56)

Dopo l’assaggio di qualche mese fa (Seconda e Quarta di Schumann, UAR012), s’imponeva un’occhiata più da vicino ai restanti volumi di questa piccola, preziosa e benemerita collana dedicata alla ristampa dei dischi incisi da Szell per la Columbia e per una sua associata, la Epic, quando ancora vigeva la tecnica monoaurale. Va detto subito che il restauro sonoro è impeccabile per pulizia, lindore e chiarezza dei piani sonori (merito, quest’ultimo, da attribuire agli ingegneri del suono originari). Il maestro ungherese prese possesso dell’Orchestra di Cleveland nella stagione 1946-47 e a quel primo anno d’un sodalizio interrotto solo dalla morte del direttore-tiranno (1970) risale l’impresa meno convincente tra quelle riportate alla luce dalla United Archives: una Quarta di Beethoven vigorosa e spavalda al limite della violenza. Non si tratta tanto di leggii – la qualità dell’insieme è ragguardevole, sebbene non ancora impareggiabile come risulterà di lì a pochissimo – quanto d’un gusto per il contrasto dinamico e di fraseggio impiegato a fini drammatici, che, se dà i suoi frutti nella Quinta (1955), qui non sembra funzionare troppo (e quando poi si stabilisce un’atmosfera carica di attesa e sospensione, ecco che un flauto non irreprensibile rompe l’incanto: Adagio, da 5’15). Formatosi sulla neoclassica asciuttezza di Toscanini, Szell ne ripensa la lezione coll’alternare pulsioni energiche di marcata nervatura ritmica (lungo la citata Quinta la carica non si esaurisce, anzi cresce di movimento in movimento, fino al turbinare di bassi e timpani nell’ultimo Allegro), che, sempre sull’esempio del direttore parmigiano, investono anche episodi in pianissimo dove felicemente convivono leggerezza e incisività (esemplare in questo come nel senso d’un eccezionale splendore fonico, il Till Eulenspiegel del ’49), e plaghe cantabili in cui la tensione interna non viene meno ma cede solo per qualche istante, giusto il tempo di tornire una melodia, un inciso (il fraseggiare libero dell’oboe solo nel primo tempo della Quinta, l’allargando alla fanfara dell’Allegro conclusivo, stesso pezzo, da 4’40 ca) comunque riconducibile a uno schema formale unitario, che domina e riassorbe ogni pur prezioso particolare. Di qui, un senso costante di urgenza espressiva, di spinta in avanti senza posa (far caso, nelle ouverture del Franco cacciatore e dell’Oberon, all’elettricità scaturiente dalle scalette verso l’acuto e in crescendo degli archi). Rispetto a Toscanini i momenti lirici possiedono maggiore ampiezza di respiro: non per una cura più pronunciata del legato, bensì per la ricerca d’un suono sostenuto, lungo – arcate più ampie, emissione nei fiati più calibrata e pastosa –, bello e morbido (Largo nella Nona di Dvorák, non enfatica eppur cantante come poche, tema principale della Moldava), in grado di conferire un caratteristico (di Szell) timbro misterioso a molti dei passaggi sottovoce: Andante con moto della solita Quinta, Ouverture e Notturno del Sogno mendelssohniano, Dai campi e dai boschi di Boemia di Smetana, a partire da 2’45’’ ca. Che siffatta inclinazione al ritmo ben s’attagli a marce (certe zone di Smetana, la nuziale di Mendelssohn, rustica al punto giusto: Toscanini docet) e balli, si capisce. Ma la selezione (1947) poi l’integrale (1956) delle Danze slave di Dvorak, trattate alla stregua di grande musica “leggera” e non di folklore, sono addirittura mirabili. E, nel caso di testimonianze duplici, le differenze possono anche essere notevoli. Prendiamo l’op. 72, n. 2 in mi minore, la più bella di tutte: nel ’47 elemento lirico (disegno iniziale dei violini) ed elemento ritmico si fronteggiano e oppongono, nel ’56 un impulso costante attraversa la pagina da cima a fondo. Di riferimento anche le Sinfonie di Haydn per il perfetto mélange di umorismo (sorprese ritmiche nell’Allegro della 88 e nel Finale della 104) intimità naturalezza (lo scoglio degli stacchi nei tempi lenti Szell lo supera senza impacci) e costruzione complessiva. Firkusny, nel Concerto per pianoforte di Dvorák, non demerita, ma la componente orchestrale supera per interesse quella solistica. Nelle sedute di registrazione con la Filarmonica di Nuova York (Mendelssohn, Smetana, Wagner, Weber), al di là di risultati sempre eccellenti, si avverte come un deficit di spontaneità e di intima consapevolezza nell’aderire alla ricerca di perfezione condotta da Szell.

Jacopo Pellegrini


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306 Novembre 2024
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