Dopo un anno di attesa a causa della pandemia, approda stasera alle 20 su Rai 5 e su Rai Radio 3 la nuova produzione scaligera di Salome (regia di Damiano Michieletto, Riccardo Chailly sul podio, Elena Stikhina nel ruolo del titolo). Durante le prove del 2020, interrotte a causa del primo lockdown, avevamo visitato in esclusiva il dietro le quinte di questa produzione. Damiano Michieletto e lo scenografo Paolo Fantin raccontano per la prima volta il loro metodo di lavoro.
Sul palcoscenico della Scala Damiano Michieletto si muove con scatti improvvisi. Non cammina, balza. E quando spalanca le braccia per dettagliare meglio la Danza dei sette veli (dove i veli, in realtà, sono decine di lunghe corde rosso sangue) sembra che debba decollare da un momento all’altro. Fa provare il momento più delirante di Salome cinque volte, mai dallo stesso punto. A Salome si rivolge in inglese ma pure in tedesco, partitura alla mano. Se qualcuno non lo conoscesse, potrebbe scambiarlo anche per il direttore. Paolo Fantin, lo scenografo dal quale non si è mai separato (e viceversa), gli sta un po’ a distanza. Una grossa sfera, intanto, scende dall’alto. “Troppo veloce, servono 7-8 secondi in meno”, chiede Michieletto. Non è un’indicazione casuale: quando la palla cala più lentamente non “invade” più la musica, ma la asseconda. Ora sì, funziona.
I fili in cui viene irretita Salome occupano quasi un’ora del lavoro pomeridiano. Un complicato meccanismo di tiranti, dalla base del boccascena, li fa alzare aggrappati al vestito della protagonista. Quando si dipanano completamente, un grande trapezio di filamenti rossi occupa la scena, rendendola uno spazio improvvisamente angosciante. Poi, per venti minuti, i tecnici dovranno raggrupparli per evitare grovigli. Michieletto e Fantin non parlano spesso durante le prove. Non ne hanno bisogno. Lavorano insieme da sedici anni: il regista ne aveva 29, lo scenografo appena 23. “Ero il suo co-relatore in Accademia quando presentò la tesi in Scenografia e Scenotecnica”, racconta Michieletto. “È in quel periodo che ti feci vedere un mio lavoro, proprio su Salome”, gli rammenta Fantin. Si chiude un cerchio. Anzi, si riapre: “Ti ricordi che anche allora c’era un buco al centro della scena? (come in questa Salome scaligera, ndr)”. Si sono scelti e da allora sanno tutto l’uno dell’altro. Forse, proprio per questo, non hanno mai avuto bisogno di firmare un contratto d’esclusiva. “Nel 2007 litigai con l’agente perché volevo Paolo nella Gazza ladra di Pesaro. Era quasi al debutto, l’occasione era importante. Ma io amo le scelte impulsive, mi fido del mio fiuto, anche senza apparente razionalità”. Quell’intuizione valse il primo di tre Premi Abbiati. Nel mondo dell’opera Fantin è un raro caso di fedeltà assoluta. Lo hanno chiamato in tanti, Robert Carsen compreso, ma lui ha sempre avuto la stessa risposta. “I no che ho detto sono dovuti agli impegni – si smarca – preferisco non sovraccaricarmi e fare le cose per bene”, anche perché la macchina-Michieletto a pieno regime viaggia al ritmo di quattro nuove produzioni l’anno, senza contare le riprese: del resto, nel risiko di questo infaticabile team creativo ci sono già quindici paesi conquistati in tre continenti diversi. Michieletto, invece, per ragioni anagrafiche ha dovuto “tradire” Fantin un paio di volte ad inizio carriera. In Schwanda di Weinberger al Festival di Wexford 2003, per esempio, con lui c’era lo scenografo Robin Rawstorne. “Ci lavorai benissimo, ma poi lui scelse di fare l’architetto. Più volte ho detto a Paolo: ‘vai, cogli questa opportunità’, magari è un arricchimento”. Niente da fare. “Cosa vuoi, finché sento che c’è energia, che la cosa cresce… Sarò un romantico, ma a me piace coltivare i rapporti”, gli replica Fantin, che a Treviso abita due piani sopra il collega. È difficile credere che da un sodalizio artistico così lungo continuino a nascere spettacoli a ritmo serrato, senza dar segni di stanchezza creativa. Che cosa nutre questa fucina? Cosa fa sì che la squadra funzioni senza cadere nel cliché della maniera? “Il segreto credo che stia nel modo in cui ci si immerge nel testo”, dice il regista. Facile a dirsi. Ma è lo scavo che connota l’approccio di ogni regista. E come scava, allora, Michieletto? “Leggo, rileggo, mi metto in ascolto della storia. Poi faccio tabula rasa e riparto da capo. Dove ho fatto errori in passato è perché ho affrontato questo passaggio con fretta o presunzione. Scavare bene vuol dire entrare in una stanza all’improvviso e chiedersi non chi siano i personaggi, ma cosa siano l’uno per l’altro. Cerco il conflitto, i fili che legano le persone, i ruoli e i rapporti di forza che l’uno esercita sull’altro. E poi condivido tutto con Paolo, che intanto s’è messo al lavoro sulle immagini”. Esempi pratici: “Prendiamo Salome. Nel testo originale di Oscar Wilde c’è una frase che non viene quasi mai considerata: si dice che suo padre sia stato imprigionato nella stessa cisterna di Iokanaan. Per me questo è un passaggio cruciale: non è affatto scontato che Salome sia una femme fatale, magari necrofila; nella sua attrazione verso Iokanaan, invece, ci vedo una bambina orfana che cerca il ricongiungimento col padre. Alla fine quasi tutte le opere hanno a che fare con un padre, una madre e un figlio”. Ma qui non si cerca un colpevole. Nel teatro di Michieletto non si fa mai morale. C’è sempre, invece, una radiografia psicologica pronta a imprimersi sullo spettatore. E la scenografia ne è parte attiva: “Per me – spiega Fantin – anche la scena deve avere una sua vita psicologica, come se fosse un personaggio aggiunto che interagisce con gli attori”. Eccone alcune: In Damnation de Faust quando Mefistofele ha ottenuto l’anima di Faust, il biancore clinico della scena viene invaso da un telo nero che cola come magma; in Aquagranda (Venezia, 2016) una vasca si riempie d’acqua poco alla volta, con un crescendo esasperante, e libera all’improvviso il suo contenuto sul palcoscenico; in Macbeth (Venezia 2018) la morte non strazia i corpi ma li ricopre con la plastica, plastica che per sua duttilità è sia sudario sia velo di coscienza. Movimento continuo, in scena. Stasi proibita. “Non crediamo – e qui Michieletto usa il plurale – che il teatro sia la rappresentazione di una situazione. Tutto è al servizio del racconto e quindi anche la scenografia deve essere un elemento narrativo, con uno sviluppo continuo. Josef Svoboda diceva in teatro puoi usare tutto, anche una scena fatta di formaggio, basta che abbia un senso”. Chi lo decide? “Il nostro lavoro è come una partita a tennis – spiega Michieletto – io mi prendo la responsabilità finale mettendoci la firma, ma prima ascolto tutti. Una buona idea può arrivare da chiunque all’improvviso: da Alessandro Carletti (il light designer), da Carla Teti (costumi), dai coreografi (Chiara Vecchi e Thomas Wilhelm) o dai videomaker, anche se il video live va usato con parsimonia e solo se può raccontare qualcosa di più accanto alla storia”. A volte è una singola immagine a far trovare la chiave di un intero spettacolo, com’è capitato in Viaggio a Reims (Roma 2017), forse l’opera più statica del teatro musicale. “Era un bel problema, mi stavo spaccando il cervello a caccia di una soluzione”, ricorda Michieletto. “Poi sono incappato nel grande dipinto dell’incoronazione di Carlo X di Gérard e lì si è accesa una scintilla”. Quel quadro diventa tableaux vivant con i personaggi rossiniani che si “pietrificano” nella scena, in un dialogo finale sublime tra i visitatori del museo e le “copie” viventi dell’opera d’arte. “Da quello spunto ho costruito la galleria d’arte in cui è ambientata l’opera”, spiega Fantin. “Ecco – lo interrompe Michieletto – è proprio questa la regola fondamentale del nostro team: mai affezionarti alle idee. Cerco sempre di buttare via quanto più lavoro possibile. Tutto alle spalle, si deve sempre ricominciare. Nel momento in cui ti leghi troppo a un concetto, non vai più avanti”. Nulla però viene buttato. A casa c’è l’archivio delle idee che non hanno mai visto la luce: “E non è detto che non possa tornare utile: è un buon segno quando lasci indietro molte cose”, dice Michieletto lanciando uno sguardo d’intesa con Fantin. Forse pensa già ai prossimi progetti: dopo Jenufa a Berlino ci sarà, forse, l’atteso debutto in Wagner, anche se il “cosa” e il “dove” sono ancora segreti. “Ci sono stati proposti Tristan e Meistersinger, poi non se n’è fatto niente”, abbozza Michieletto, “ma per un autore del genere c’è bisogno di tempo”, conclude la frase Fantin. Non che i titoli impervi li abbiano evitati: Der Ferne Klang di Schreker a Francoforte (marzo 2019) è stata una delle loro sfide più riuscite nelle opere fuori repertorio (fuori, beninteso, per l’Italia). Lì si è cominciata ad avvertire una svolta verso la sottrazione già percepita nel Macbeth veneziano: “L’esperienza ti aiuta a togliere e più togli più il pubblico è libero di immaginare”. Nulla a che vedere con la Madama Butterfly del 2010, ambientata in un debordante e coloratissimo quartiere a luci rosse del sud-est asiatico. “Ho rispettato l’anima della storia – rivendica il regista – quello di Pinkerton è turismo sessuale”. Gli applausi del pubblico bolognese, che ha rivisto lo spettacolo nel febbraio 2020, lo hanno confermato. Dieci anni fa un successo così plenario non era garantito. “Noi non lavoriamo né per gli applausi a prescindere né ci compiacciamo per i buu – spiega il regista – fai teatro per trasmettere ciò che vedi, per condividere. I fischi fanno dispiacere non per il fatto in sé, ma perché forse il messaggio non è arrivato. E comunque a prenderci la reazione del pubblico usciamo sempre insieme, fateci caso”. E Damiano Michieletto e Paolo Fantin, invece, dove vogliono arrivare? L’opera è il loro regno, la prosa la loro palestra d’origine. Ma i campi dell’espressione sono tanti, dal cinema alla performing art. “Ci sto pensando: non voglio che il teatro musicale diventi la mia zona di confort: in fondo questo è un mondo bellissimo, ma per pochi. E le idee hanno bisogno di circolare. Se parli solo con i tecnici e gli addetti ai lavori, dei quali conosci già lodi e critiche, alla fine non cresci”. Paolo Fantin ha un sogno preciso: “Vorrei, prima o poi, curare l’allestimento dell’inaugurazione di un’Olimpiade”. Non quella di Metastasio, proprio l’Olimpiade a cinque cerchi “È una grande festa in cui muovi le masse e prepari i solisti. Come l’opera, no?”.
Luca Baccolini
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