interpreti E. Stikhina, W. Koch, G. Siegel, L. Watson direttore Riccardo Chailly regia Damiano Michieletto scene Paolo Fantin teatro alla Scala
MILANO – La situazione creata dal Covid non sembra aver nuociuto alla preparazione dell’orchestra della Scala nella attesa Salome di Strauss: distanziati in platea e guidati da Riccardo Chailly i musicisti scaligeri hanno offerto una prova magnifica. All’ascolto dal vivo, ma anche nella registrazione trasmessa (ora da non perdere su RaiPlay) appariva splendida la direzione di Chailly: gli incanti dell’orchestra straussiana avevano una evidenza affascinante nelle evocazioni fiabesche come nelle asprezze drammatiche, grazie alla rara nitidezza, alla trasparenza perfino, nel contesto di una interpretazione sempre incalzante e sorretta da una grande tensione, e insieme attentissima all’equilibrio con le voci. Pregevoli soprattutto quelle dell’ottima protagonista, Elena Stikhina e di Gerhard Siegel (Erode). Wolfgang Koch è Jochanaan, potente ma un poco rozzo. Di buon livello l’Erodiade di Linda Watson, il Narraboth di Attilio Glaser e il paggio di Lioba Braun, qui in veste femminile, come un’anziana e materna nutrice.
Trasparenza e incalzante tensione si incontravano in modo suggestivo con la regia di Damiano Michieletto, le scene di Paolo Fantin, i costumi di Carla Teti e le luci di Alessandro Carletti, artefici di uno spettacolo che sulla sontuosa ricchezza dell’orchestra straussiana costruisce un contrappunto crudele inizialmente improntato a disadorna sobrietà ed estrema astrazione. La scena è una scatola bianca: al centro è disegnato un cerchio, corrispondente alla cisterna dove è imprigionato Jochanaan, come lo era stato il padre di Salome, assassinato dal fratello Erode per sposarne la vedova Erodiade, complice del delitto. Questo antefatto assume originale evidenza nello spettacolo (anche attraverso l’evocazione dell’ucciso, tra l’altro in immagini di Salome bambina che gioca con il padre), ed è decisivo nella definizione dell’infernale ambiente familiare in cui vive la turbata adolescente, insidiata dallo zio (cui la complicità della madre consente di stuprarla). L’atemporale dramma familiare si svolge in abiti moderni e viene raccontato con coerente efficacia (per qualche aspetto “freudiana”) attraverso le azioni, le immagini e i simboli che via via riempiono la sobria semplicità della scena, sotto luci chiare e violente: non c’è posto per l’oscurità notturna e per la luna evocata dal testo; ma scende sopra la cisterna centrale una gigantesca sfera nera che Paolo Fantin ha definito “un’eclisse, rinvio all’anima livida dei personaggi e alla tinta cupa della vicenda”.
Dalla cavità della cisterna affiora fango; accanto a Jochanaan appaiono angeli della morte con ali nere. La danza dei sette veli (che ovviamente non ci sono) è un rito sacrificale con Salome violentata da uomini che hanno la stessa maschera poco prima indossata da Erode. Dall’abito bianco di Salome, che attraversa l’intera scena dal basso in alto, escono lunghissime lame di tessuto scarlatto che Fantin ha definito “vere e proprie lacrime di sangue”.
La coerente impostazione dello spettacolo sembra voler escludere ogni erotismo e cancellare l’attrazione amorosa di Salome per Jochanaan: con innegabile, ma discutibile coraggio si elimina il bacio necrofilo e viene contraddetto il voluttuoso abbandono melodico di Strauss sulle frasi più celebri del testo. Salome deve accontentarsi di un bicchiere di sangue; ma non potrà mai baciare la bocca di Jochanaan. Invano lo ha fatto decapitare: la testa non le viene consegnata; ma le appare sospesa in alto, cinta di aureola, come nella Apparition di Moreau, amata dal protagonista di Controcorrente di Huysmans. Nel nuovo contesto il prezioso rimando a Moreau è deformato in chiave pop (o volutamente Kitsch?): il profilo del decollato, da cui cola il sangue, è candido e sembra poggiare su un ostensorio, circondato da raggi dorati che prendono il posto dell’aureola.
Paolo Petazzi
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