Anna Netrebko canta magnificamente, e non è una sorpresa. Smorza, sfuma, accenta, ha fiati interminabili da compressore e, non bastasse, si mangia il palco con la rabbia di una tigre in gabbia. Non ha il tonnellaggio delle Turandot da trincea, ma pur con uno strumento più lirico che drammatico non dà mai l’impressione di soffrire la scrittura o arrampicarsi verso una nota – sia essa sparata a pieni polmoni o accarezzata in mezzavoce – con difficoltà o cautela. Insomma si beve la parte come fosse un bicchier d’acqua fresca. Tutto bene, anzi benissimo, se l’opera fosse un one-woman-show, invece è un’altra cosa. E qui iniziano i problemi. Il primo, letale per la compattezza musicale, è il distanziamento di musicisti e voci. Con l’orchestra spalmata su di una striscia che sarà lunga almeno trenta metri, il coro a perdersi sui gradoni che guardano il podio dalla sinistra e le voci bianche messe a specchio dalla parte opposta, per dare una quadratura al tutto servirebbe quantomeno un direttore bifronte. Evidentemente Jader Bignamini di occhi ne ha solo un paio e se li volge verso gli spalti laterali si perde le percussioni che gli finiscono alle spalle, e viceversa. Fatto sta che i conti tornano di rado e non si contano i ritardi sul battito della bacchetta o gli sfasamenti. È un peccato perché nei momenti in cui gli è possibile concentrarsi sugli strumenti più vicini, che sono grossomodo archi e legni, ad esempio nell’aria del primo atto di Liù e nella sortita di Lei (Lei sarebbe Netrebko, beninteso), si ascoltano cose molto belle, con l’orchestra capace di esprimere un pregevolissimo legato e prestarsi ad assottigliamenti dinamici verso il pianissimo ben poco “areniani”. Problema numero due: lo spettacolo, che vorrebbe essere la solita Turandot di impronta colossal, ma in piccolo. L’impianto sfrutta la mastaba fissa su cui vengono montate le scene di tutte le produzioni stagionali e il grande pannello led semicircolare che proietta, a fondo palco, una sorta di cornice virtuale. In proscenio tre pedane circolari completano il quadro. Il resto è il solito ambaradan di statue dorate, stucchi, costumi sfavillanti ed effetti assortiti, cui manca però lo sfarzo e l’imponenza dei giorni migliori. Che sia un anno difficile in cui occorre fare di necessità virtù è chiaro a tutti, tant’è che l’armamentario scenico pesca dagli angoli dei magazzini di Fondazione Arena mettendo insieme quante più cineserie possibili, ma rimane la sensazione che ci fossero i margini per mettere in cantiere qualcosa di più interessante. La misura dell’occasione persa la dà il resto del cast. Calaf è Yusif Eyvazov che, si sa, non è dotato dello strumento più bello del mondo, ma di anno in anno guadagna in sicurezza e spavalderia. Ha tutte le note della parte, compreso il Do opzionale dell’“ardente”, e pare tenerci molto a farlo notare, vista la baldanza con cui si crogiola su ogni acuto. La voce però, anche se proiettata e girata come si deve, non “buca” mai del tutto, quasi la frenasse dall’espandersi una velatura di fondo. Liù è la bravissima Ruth Iniesta, che ha tutto quel che serve per guadagnarsi un facile trionfo personale: bel colore, ottima musicalità, voce dal volume non dirompente ma che ben corre tra poltroncine e gradinate e la capacità di dosarne il suono senza increspature dal forte al piano. Riccardo Fassi ha l’ammaliante timbro di basso e la classe che gli conosciamo, ma forse è ancora acerbo per centrare la dimensione del vecchio re tartaro, mentre è al solito una garanzia Carlo Bosi, Altoum
Paolo Locatelli
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