Verdi – Rigoletto

Alla Fenice una nuova produzione che rivede lo stereotipo del giullare buono e del padre geloso
interpreti L.Salsi, C.Pavone, I.A.Rivas, M.Denti, V.Girardello, G.Montresor
direttore Daniele Callegari
regia Damiano Michieletto
Teatro La Fenice

VENEZIA – Tuttora poco battuta, la strada che porta al Rigoletto di Verdi anziché alla sua mortificazione perpetrata dalla cosiddetta tradizione esecutiva: strada che parla inglese, principiando nel 1982 con Jonathan Miller, poi con le successive pietre miliari di David MacVicar e Graham Vick. Strada che a parer mio trova la sua tappa di gran lunga più riuscita con lo spettacolo di Michieletto-Fantin: nato quattro anni fa ad Amsterdam, approda ora alla Fenice. Se di Verdi è qui la lettera della partitura eseguita, ovvero quella che le cariatidi del salotto di Nonna Speranza Lirica amano definire “il Rigoletto senza acuti” – e cui Callegari è scrupolosissimamente fedele – ancor più autenticamente verdiano ne è lo spirito di cui si sostanzia la drammaturgia.
Niente povero babbo infelice bensì un essere moralmente discutibile che sì, è anche padre, ma pessimo: ha sbagliato tutto, e lo capisce quand’è tardi, quando comprende che la figlia l’ha ammazzata lui, e impazzisce. La scena fissa è uno stanzone di manicomio con un ballatoio in alto. Rigoletto ripercorre la propria esistenza come in una sorta di autoanalisi, proiettandola su medici e infermieri: che vede emergere da buie aperture nella parete di mattoni (scena d’inquietante lividore verdastro, creata dall’alter ego di Michieletto, il geniale Paolo Fantin), vestiti di bianco, il viso celato dietro una maschera con le fattezze del Duca; il primario “crudele” se lo immagina Sparafucile, Giovanna è l’infermiera. Gilda ha il proprio doppio in una bambina-bambola col volto bloccato nella biacca, ed è sempre a lei che si rivolge Rigoletto, perché come bambola inerte la vede, da tenere segregata assieme ai suoi peluches, senza capire né il perché lei li getti rabbiosamente via, né il significato dei suoi disegni infantili pieni di sbarre, né cosa si celi dietro le occhiate amare con cui nei video in bianco e nero sullo sfondo questa bimba guardi il padre che la chiude a chiave nella stanza. Rigoletto dileggia Monterone coprendolo di coriandoli dorati, ma subito dopo questi indossa una gobba finta e nel fronteggiarlo ci appare identico a lui; Verdi pone uno e l’altro in due ambiti tonali vicinissimi, chiaramente indicandone la reciproca identificazione: ma mai nessuno l’aveva mostrato con simile agghiacciante evidenza scenica. Mai un momento privo di potentissimo ancorché chiarissimo significato drammaturgico, sismografo implacabile d’un divenire psicologico. Apice un “Cortigiani” che Rigoletto rivolge a se stesso  solo nella scena deserta sulle cui pareti brillano infantili disegni coloratissimi che via via si coprono di righe nere: e alla fine, stringe tra le braccia la bimba-bambola inerte intuendo – forse – che la donna sua figlia è un’altra, accanto a lui, ferita a morte; e il video ci mostra la bambina che finalmente riesce a fuggire dalla stanza prigione, a correre via felice nei prati, la morte è la sua liberazione definitiva.
Non esito a dire di non aver mai avvertito, prima, quanto profondo, articolato, ambiguo, gigantescamente shakespeariano sia il ritratto tracciato da Verdi.
Callegari, come dicevo, dirige Verdi anziché la sua impostura: e lo fa benissimo, con tensione ininterrotta, ricchezza di chiaroscuri, empito melodico sempre robusto e mai spampanato, accompagnamento esemplare al canto. E che canto! Detto che Ivan Ayon Rivas, quantunque non ancora trentenne, è arrivato a fornirsi di eccellente caratura tecnica così da plasmare un magnifico Duca; che Claudia Pavone canta piuttosto bene; che tutti i ruoli di fianco sono ottimi: è Luca Salsi a riassumere il senso dello spettacolo.
Accetta l’improba, erculea fatica di restare sempre, sempre, sempre in scena: e recita in ogni secondo, con intensità folle, tutte le sue continue controscene. Plasma linee vocali di robustezza eccezionale piegandole a sfumature e mezzevoci (Gesù, cosa diventa un “Ah no, è follia” che ripudia l’orrido sol acuto recuperando il verdiano mi – coronato! – ma sfumandolo in un pianissimo di potenza ben altrimenti lancinante) che gettano luce sempre rivelatrice su di uno dei caratteri più giganteschi del teatro musicale. Fa erompere il più bel “Cortigiani” che nella mia non corta frequentazione teatrale o discografica abbia mai ascoltato. Ma ovunque, dà pieno senso alla geniale – e verdianissima, insisto – impostazione di Michieletto. Salsi si conferma insomma la voce del miglior baritono oggi in circolazione, applausi. Ma è molto, molto di più: il miglior interprete della parola scenica verdiana, perché baritono il più artista.
Rigoletto torna nel teatro dove nacque: e rinasce per quello che davvero è.
Elvio Giudici

 

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