Jakub Hrůša, neo direttore ospite principale di Santa Cecilia, inaugura la stagione con la Seconda Sinfonia di Mahler, vetta spirituale dei dubbi che tormentavano l’ateismo del compositore, ma anche simbolo della ripartenza, a pochi giorni dalla riapertura completa delle sale al 100%.
Ad aprire i 28 concerti sinfonici (84 con le repliche) dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia è stato scelto il neo deo direttore ospite principale Jakub Hrůša, quarant’anni, ceco, legatosi a un contratto triennale con (almeno) tre appuntamenti l’anno. Il primo, fino al 9 ottobre, è la Sinfonia “Resurrezione” di Mahler. È lui uno dei volti più attesi di una stagione che per il terzo anno consecutivo riporta Kirill Petrenko al Parco della Musica (Mendelssohn, Brahms, Debussy), oltre a una serie di grandi nomi, da Myung Whun Chung a Daniele Gatti (futuro direttore musicale dal 2024), da Manfred Honeck a Daniel Harding, passando per debutti assoluti come quello di Maxim Emelyanychev, Lorenzo Viotti, Markus Stenz, Jaap van Zweden (direttore principale della New York Philharmonic) e Michele Mariotti. In programma anche una Turandot in forma di concerto diretta da Antonio Pappano con il debutto nei ruoli di Jonas Kaufmann e Sondra Radvanovsky.
Maestro Hrůša, in Santa Cecilia è quasi di casa. E chi la segue ha già una sua cospicua collezione di incisioni (almeno nove) con repertorio ceco. È quello che proporrà anche a Roma?
“La musica ceca è stata una parte importante della mia formazione e senza dubbio mi piace proporla, come ho fatto per lavori di Suk e Martinu. Ma una proposta musicale deve tener conto di tanti fattori e di tante forme diverse. Non parlo solo di sinfonica, ma anche di opere in forma di concerto. L’importante è non eseguire solo routine, ma offrire qualcosa di inaspettato per il pubblico”.
Lei, che da giovane studiò anche trombone, è direttore principale dei Bamberger Symphoniker, una delle migliori orchestre tedesche (tolte le big-4 Berlino, Dresda, Lipsia e Monaco). Ci racconta il suo metodo di lavoro?
“Vero, suonavo il trombone in banda e in quintetto. Utile per avere nozioni di intonazione e poi per sapere come funziona bene il reparto in orchestra. Metodi? Non ne ho uno: il bello del dirigere è adattarsi alle occasioni, con i materiali umani e musicali che hai a disposizione e a seconda dell’occasione. Amo dialogare molto con le orchestre, non sono una persona che si impone, che impone le sue opinioni o che dice ‘adesso si fa così’. Mi piace preparare bene le prove, facendo in modo che tutti siano pronti a fare quello che devono. Ci dev’essere godimento reciproco. E sì, ogni tanto prendersi dei rischi”.
Iniziare con un totem come la Seconda lo è?
“Sì se si crede, come io credo, che nessun altro sia stato in grado di creare qualcosa di più alto e insieme spiritualmente profondo. Non è un lavoro di carattere religioso, chiunque può trovarci i dubbi, le speranze e i significati più intimi alle domande sull’esistenza. Ed è un messaggio positivo, che arriva forte, soprattutto quando leggiamo il verso ‘Non sei nato invano’, o gli ultimi versi, scritti di proprio pugno da Mahler, con il suggerimento del suo amico e collega Foerster”.
Cosa gli suggerì?
“Josef Bohuslav Foerster, praghese, conobbe Mahler ad Amburgo e i due furono sempre in ottimi rapporti. Fu Foerster a suggerirgli di concludere la Seconda Sinfonia con il famoso coro della Risurrezione. Foerster era cattolico, Mahler aveva tutt’altra prospettiva, ma dalle loro conversazioni si capisce come prenda forma l’idea di quel finale grandioso”.