[interpreti] J. Tomlinson, C. Rice, J. Reuter, P. Langridge, A. Watts[direttore] Antonio Pappano[orchestra] Covent Garden[regia] Stephen Langridge[regia video] Jonathan Haswell[Formato] 16:9[Sottotitoli] It., Ing., Fr., Ted., Sp.[2 dvd] Opus Arte 1000D
Sarebbe un interessante oggetto di discussione la scelta degli argomenti trattati dal teatro d’opera. Dove, dopo la lunga eclisse procuratagli dal cinema che ai primi del Novecento ne prese il posto di principale oggetto dell’immaginario collettivo popolare, adesso che senza dubbio s’assiste a una sua fiorente rinascita (per lo più fuori d’Italia, quasi una sorta di nemesi nei confronti del monopolio iniziale) esso sembra lasciare quasi del tutto da parte i semplici triangoli amorosi per privilegiare argomenti “forti”, tra i quali largo posto assume addirittura il mondo mitologico. Aperta la questione se tale ricorso al mito avvenga a imitazione di quanto fece Wagner che vi si rifugiava in guisa di comodo paravento per parlare di cose molto concrete e moltissimo contemporanee, come – molto più di qualsivoglia esegesi musicologia – ha mostrato la vita quotidiana del teatro, nella persona di registi d’acuta intelligenza e sensibilità teatrale. Credo di sì, come d’altronde è sempre avvenuto dato che il mito, proprio in questo fine chiarificatore, trova una delle ragioni più forti del suo tenace e immutato potere di suggestione.
Così, il tema del conflitto tra le facce umana e bestiale dell’uomo, dall’uomo risolto esorcizzando quest’ultima come aliena e quindi da disprezzare e/o eliminare fisicamente, ha un’indubbia attualità che non può non coinvolgere profondamente.
Stephan Langridge l’abbiamo visto banalizzare orridamente il verdiano Otello a Salisburgo e Roma. Ma come quasi sempre nel caso d’un regista che lavori con Muti e quindi ne accetti le pesanti limitazioni teatrali, questi andrà giudicato altrove: come per esempio qui a Londra, dove infatti firma uno spettacolo magnifico. L’essere Creta un’isola-prigione s’avverte nella proiezione d’un mare oleoso, pesante, quasi solido, proiettato (nelle Toccate che separano le tredici scene, che al pari delle sue onde si gonfiano sotto la spinta d’una pulsante energia interna) al di sopra d’un recinto dietro al quale spuntano teste mascherate che irridono e incitano alla violenza bestiale, consumata dal Minotauro e celebrata dalle Keres, sorta di orride Arpie dalle ali metalliche che raspano sulle pareti. Il patto ambiguo e truffaldino imposto, da Ariane che dal quel luogo vuole fuggire, a un riluttante Teseo (grande idea dell’ottimo librettista David Harsent, questa, che propone così una personale ma convincente anticipazione del perché Teseo abbandoni Ariadne a Naxos), è reso quale rito arcaico compiuto su una spiaggia ove posa in guisa di memento la testa della vacca entro cui Pasifae s’è fatta possedere dal toro generando così il Minotauro. Il quale, incitato beffardamente dalla folla a parlare, sa solo grugnire ma in sogno parla invece con versi la cui profonda, lancinante disperazione esprime il suo essere due cose insieme soffrendo a causa di entrambe: lo sdoppiarsi di uomo e bestia riflesso genialmente in una testa di toro fatta di rete metallica (solo una delle tante gabbie poste a scandire la narrazione) entro la quale s’intravede un viso umano che nel sogno viene illuminato dall’interno, mentre l’intera figura si riflette in uno specchio. Gestualità fluida e sempre significante, uso magistrale dello spazio scenico, riprese video la cui pertinenza e quindi valorizzazione dello spettacolo fa melanconicamente pensare all’orrore Rai che ha invece scempiato il Don Carlo di Braunschweig.
Birtwistle è ancora una volta straordinario nell’esprimere la ritualità e le diverse prospettive da cui esaminare una stessa situazione, aggiungendo stavolta al consueto uso magistrale di archi e percussioni un bellissimo impiego di toccanti e mai edonistici melismi; di varietà ritmica nel descrivere il Minotauro; di acutezza nell’associare uno strumento – il sassofono – ad Ariadne, e nel conferire a un tema (un singolo accordo melodico bruscamente spezzato, subito a inizio d’opera) la funzione di filo rosso posto a guidarci entro il labirinto. Geniale inoltre, e oltremodo riferibile a Birtwistle, l’impiego di canto senza parole come ennesima raffigurazione del “doppio”: i grugniti del mezzo uomo e mezza bestia; le interiezioni dell’Oracolo (sacerdotessa dei Serpenti, ma da quella figura alta quattro metri con enormi seni nudi come nelle statue arcaiche, esce voce di controtenore) bisognose di traduzione da parte del sacerdote Hiereus; gli incitamenti della folla. L’esecuzione, guidata dalla mano sicura di Pappano e dalla supervisione dell’autore, non può essere altro che eccellente: memorabili il Minotauro di quel grandissimo artista che è John Tomlinson, e l’Hiereus di Philip Langridge padre di Stephen; bravissimi tanto Christine Rice quanto Johan Reuter.
Elvio Giudici