[interpreti] R. Kabaivanska, D. Mazzuccato, M. Melbye, L. Canonici, E. Pandolfi
Successo incredibile, quello di Die lustige Witwe, eppure nato da un azzardo: nel 1905 Leo Stein assiste a Vienna al revival di una commedia di Henri Meilhac, che Parigi nel 1861 non aveva accolto bene, mentre l’adattamento tedesco aveva avuto miglior fortuna, e ne trae con Victor Léon un libretto frizzante per un’operetta. Sembra la migliore occasione per risollevare le sorti del Theater an der Wien, anche se la musica è affidata al giovane Lehár solo in seconda battuta e non senza titubanze. Pochi i soldi, si va in scena con scene e costumi di reimpiego: ma l’esito è travolgente e proietta l’autore nell’empireo. Incominciano anche le trasferte: Berlino, Trieste e, tappe importantissime nel 1907, Londra al Daly’s Theatre (con testo inglese, azione spostata dall’inesistente Pontevedro all’ancor più evanescente Marsovia e soprattutto vari brani aggiunti per l’occasione) e New York. Nello stesso anno, a Vienna, si spengono le quattrocento candeline sulle recite. Una vita avventurosa e intensa, visto il numero delle nazioni coinvolte, ma anche delle traduzioni e delle versioni musicali diverse dall’originale, anche per il cinema (il film di Lubitsch del 1934). Tanta fortuna si deve all’inarrivabile esprit della musica, capace di riassumere un’epoca, infondendo linfa vitale a personaggi che risultano veri esseri umani e non stereotipi da cartolina, e avvolgendo con languore e raffinata eleganza, grazie allo sfrenato sottofondo delle danze (dal valzer al cakewalk), una vicenda dai connotati erotici: l’attrazione tra Hanna Glawari e il conte Danilo, un tempo amanti ma sposi mancati per l’avversione della famiglia di lui a causa delle umili origini di lei, riesplode quando Hanna, ricchissima vedova di un banchiere dell’immaginario Pontevedro (“20 milioni”: a tanto ammonta la cifra del suo patrimonio, che a teatro viene spesso rivalutata), diventa preda ambita di spasimanti ansiosi di mettere le mani sul denaro, che è bene rimanga nelle casse della banca del non facoltoso principato. Nella cornice apparentemente lussuosa dell’ambasciata di Parigi, il candidato a salvare la patria è il conte Danilo, ma la vedova capitolerà soltanto quando, dopo vari equivoci (messi in moto dal tentativo di occultare il flirt tra Valencienne, la bella e giovane moglie dell’ambasciatore, e lo spasimante Camille, legati anche ad un ventaglio compromettente), sarà sicura del vero amore del giovane. Passione, dunque, ma anche denaro e matrimonio: tanti sono i volti di questa operetta, che si può mettere in scena nei modi più diversi: come un gioco malizioso e ironico tra i due protagonisti oppure accentuando l’attrazione fisica. Una chiave di lettura più moderna, quest’ultima, che ha avuto il sopravvento in alcuni recenti spettacoli: ad esempio a Parigi nel 1997, tutto ruotava intorno al fascino carismatico e alla complessità psicologica di Karita Mattila e Bo Skovhus, complice la regia di Lavelli che sottolineava il motivo della crisi sentimentale con accenti anche amari; e a Zurigo nel 2004, in un contesto più semplice e lineare, era evidente l’intento di concentrare l’attenzione sul versante della seduzione, scegliendo cantanti-attori di particolare abilità scenica, avvenenza e quindi credibilità (Dagmar Schellenberger e Rodney Gilfry, nel dvd Arthaus Musik). Ma la vicenda si può raccontare anche in modo ironico e allusivo, come ad esempio in molteplici versioni inglesi, in cui prevale il gusto della battuta mordace e della parodia divertente di un certo tipo di società: emblematica la regia liberty e con tocchi di kitsch di Lotfi Mansouri, con Joan Sutherland nel 1988 a Sydney (ed. Bonynge, come già nel 1976 a Vancouver: Dvd Kultur e selezione in cd Decca) e poi con Yvonne Kenny e Bo Skovhus nel 2001 a San Francisco (dvd Opus Arte).
Giovanni Chiodi