MILANO
[direttore] Georges Prêtre
[orchestra] Filarmonica della Scala
[teatro] alla Scala
Secondo la concezione “fenomenologica” della direzione d’orchestra di Sergiu Celebidache (in parte osservata anche da Daniel Barenboim) la densità del materiale/pensiero musicale determina la scelta dei tempi di esecuzione. Secondo Georges Prêtre, soprattutto quello delle ultime apparizioni – com’ha ribadito la sua Quinta di Mahler officiata per tre sere alla Scala, con un successo di pubblico ch’era anche dimostrazione d’affetto e di rispetto per la storia milanese dell’84enne maestro – il metronomo è una variabile umorale. In linea di massima, l’unico principio che pare valere è quello che si verifica guardando dal finestrino del treno: se è un interregionale lo scorrere lento delle porzioni di panorama consente di cogliere più particolari. Magari anche quelli non decisivi per farsi un’idea del paesaggio. Così, la tumultuosa Marcia funebre d’avvio della monumentale e non sempre congruente partitura (comunque, non quel “coacervo di orrori, naivetés, furbizie, dilettantismi…tratti di una personalità psicopatica e probabilmente ai confini della paranoia”, che ogni volta vi riconosce Paolo Isotta) è messa in moto da Prêtre con flemma ultraklemperiana: senza rendere conto alle ordinarie indicazioni metronomiche d’autore. Lentissimo l’attacco alla tromba (brava lì, nei richiami che seguono e nella ripresa con sordina del finale), liberato con una di quelle magie corporee-chironomiche che da sole valgono l’esserci ai concerti di Prêtre; non meno allentato il canto degli archi (ma, visto che di marcia si tratta, il direttore si curava soprattutto del battito funebre dei contrabbassi) come le successive ricomposizioni e smembramenti tematici. Prêtre non ha fretta di dare spicco alle affermatività discorsive: si attarda sulle tinte dei legni, flirta con improvvise velature di suono, fa cantare brevi segmenti melodici intrecciati nella sontuosa trama polifonico-sinfonico-contrappuntistica quasi volesse indicarci col dito dove guardare/ascoltare. La densità orchestrale mahleriana gli consente di farlo. La densità intrinseca della partitura, cioè la concentrazione di umori e la severa concezione compositiva, pretenderebbero qualcosa di più approfondito di una prospettiva orografica e orizzontale. Allo stesso modo: seduce e sconcerta l’ostentata puccinanità con cui Prêtre sottrae l’Adagietto a qualsivoglia proposito d’autore di lavorare sulla “cantabilità interrotta” o su una pioneristica Klangfarbenmelodie, perché ogni lacerto di melodia è stirato fino a sembrare un’aria d’opera. Pure la qualità del concertatore – non diciamo del direttore: lì ci bastavano le occhiate allarmate delle giovani prime parti della Filarmonica – e l’intatto carisma esecutivo compensavano ogni riserva. E la qualità del suono, dal sapore antico e un po’ affettato, frutto di un’attenzione cerimoniosa – erotica e non razionale – ai dettagli, corrisponde in modo ancor così magicamente esatto all’istrionismo del maestro, e alla morbosa scrittura orchestrale d’autore, che “quella” Quinta non ortodossa e così poco aggiornata, dal vivo è parsa in buona parte non condivisibile ma un bel regalo.
Angelo Foletto