interpreti M. Gagliardo, N. Manfrino, M. Barrard, M. Moretto, E. Capuano
direttore Gianluigi Gelmetti
regia Pierre Audi
teatro dell'Opera
ROMA – Niente da fare, il popolo italiano della musica è riuscito ad assuefarsi a qualunque proposta di trovarobato gli venga propinata, fosse pur l’ultima amenità del settecentesco baule veneto-partenopeo, ma col Pelléas et Mélisande gli è tuttora vietata ogni dimestichezza, e forse a tal punto gli sarà vietata per sempre. Almeno per quel sempre di cui siamo in grado di ragionare. Non è facile intenderne le ragioni salvo identificarle col solito dichiarato antioperismo dell’unica creatura debussiana compiuta per il teatro; ma a leggerci bene non si tratta di antioperismo quanto di una sorta di operismo sotto pelle da cui vengono esclusi quelli che i tedeschi chiamano Höhepunkten, o picchi di emozionalità: sotto ogni latitudine i pubblici dell’opera esigono che ciò nel melodramma avvenga se no si annoia. E così anche quest’ultima apparizione del capolavoro, coprodotto da Roma con la Monnaie di Bruxelles, ha convocato al Teatro dell’Opera non più che una metà del potenziale di capienza dello stesso; una metà però una volta tanto civile, come spesso avviene dopo la “prima”: rarissimi gli abbandoni in corso d’opera (qualche esponente della solita galleria di orbi e zoppi), rari quelli a missione compiuta. Abbondante e convinto invece il plauso, dopo due ore e quaranta di inesausta attenzione. Perché tutto lo meritava: opera in primis e sua realizzazione musicalscenica.
Cominceremo dalla parte musicale, che vedeva a suo capo Gianluigi Gelmetti. Il quale ha affrontato con serietà l’impegno e ha subito compiuto una buona azione facendo giustizia di quella diffusissima cretineria secondo cui il Pelléas coincide con la poetica del flou e del preraffaellita, autentica ipostasi della Décadence. Tal opzione è dovuta, si sa, al verboso testo di Maeterlinck, ammiccante di continuo a entità similmisteriche che oggi non incantano più nessuno e che Debussy dovette in sua buona parte patire. I suoni dell’attentissima orchestra del teatro romano, indubbiamente cresciuta, hanno mantenuto sofficità e riserbo magari un po’ enfatizzando qua e là le pulsioni di lirismo e passionalità di un’opera che di lirismo ne effonde tanto e di gran marca (e merito della bacchetta è di averlo intuìto), ma di passione poca. I finissimi diranno che Gelmetti ha diretto Debussy come fosse Massenet; ma dimenticano o forse non sanno, i finissimi, che proprio Massenet fu uno dei pochi del milieu francese contemporaneo a ottenere qualche benevola parola dal patriarca della nuova Francia. E d’altra parte, mettiamoci nei panni di un direttore alle prese col Pelléas: è tale il rigore espressivo della meravigliosa partitura che, pena l’abbandono della trincea da parte di un discreto manipolo della truppa auditiva, qualche concessione alle parti meno avveniristiche d’essa è lecito attendersela. Nutrirei piuttosto qualche modesta riserva sulla non ancora piena coscienza, da parte del direttore, di quello che è il nocciolo duro dell’opera, e cioè la scabra petrosità della sua zona d’ombra, quella che ci parla di orrido e crudeltà. Si sarebbe infatti desiderato più coraggioso l’affondo nelle scene della grotta dei mendicanti e dei sotterranei, autentiche cuspidi dell’Impronunciabile ove più forte si fa la paura della resa.
Detto questo, il rimanente era pressoché perfetto. Per essere quella cui ho assistito una recita della seconda compagnia, sarà difficile dimenticare la magnifica Mélisande di Nathalie Manfrino, voce di luminosa fonte e presenza attoriale assai significativa; e gli ottimi Pelléas di Massimiliano Gagliardo (tenore o baritono? Propenderei per il primo) e Golaud di Marc Barrard, al quale ultimo venivano recuperati, dalla bacchetta e dalla regia, i tratti di dolenza rispetto ai consueti e insoffribili di trucibalderia. Forse Enzo Capuano (Arkel) e Marta Moretto (Geneviève) mostravano minor carisma vocale ma una partecipazione scenica affidabile anch’essa; e Valérie Gabail era un verosimile Yniold. Su una vigilissima regia di Pierre Audi, efficace nella gestione vuoi dei movimenti che delle luci, la struttura scenica ellittica e roteante dello scultore Anish Kapoor accresceva la felice astrazione dal reale (bellissime le ombre deformate stagliantisi sul quel corpo) che è carattere imprescindibile dell’opera. E insomma, ha avuto buon motivo di accalorarsi il non foltissimo uditorio. Piccolo e unico neo registico, se vi va di ascoltare l’avvocato di Lucifero: perché il buon Arkel, alla fine dell’atto IV, si butta su Mélisande col trasporto erotico di un amante baciandola avidamente sul collo? Arkel, Arkel, la vecchiaia infoiata non ti si addice. Chi ti credi di essere? (22 ottobre 2009)
Aldo Nicastro