interpreti E. Mosuc, F. Meli, C. Alvarez
direttore Gianandrea Noseda
regia Laurent Pelly
teatro Regio
TORINO – Uno dei principali problemi di pressoché tutti i registi, è la scarsa pragmaticità. Concepiscono uno spettacolo, e quello deve restare, indipendentemente da chi sia chiamato a interpretarlo. Ma se uno ha davanti Meryl Streep, e decide di impiegarne a fondo le mostruose capacità sapendo fin dall’inizio che in una tappa successiva non ci sarà più lei ma Ersilia Panzabiumi, di regie dovrebbe impostarne due: una per il mostro, l’altra per i comuni mortali. Pelly ha fatto nascere la sua Violetta a Santa Fè, con Natalie Dessay: ma a Torino c’era Elena Mosuc. Ora, è probabile che in termini strettissimamente vocali questa sia meglio (più polposa essendo la voce al centro): ma l’ipercinetico gioco scenico e la screziatura infinitesima sulla parola, che da sempre – oltre ai sovracuti – sono l’ubi consistam dell’essere la Dessay quell’artista sublime che è, la Mosuc non li ha. Canta bene, non è un palo in scena, ma quel muovere freneticamente le braccia, quel cadere a terra in mille modi diversi, Natalie li rende trafitture dell’anima, lei invece il roteare delle pale d’un mulino.
Peccato perché lo spettacolo ha buone idee, pur non essendo tra i massimi di Pelly. Niente ambienti o epoca definiti. Scena fissa fatta di cubi e parallelepipedi grigi digradanti, con scalette e pertugi in mezzo (da Flora, le superfici sono a specchio e la società sculettante vi si riflette deformandosi: bellissimo), una sinfonia di grigi, opprimente come il perbenismo borghese, scandita dalle luci, che ricorda da vicino l’estetica teatrale di Adolphe Appia negli anni Venti. Inizio col funerale di Violetta in un plumbeo lividore acqueo, col feretro seguito da poche persone sotto il parapioggia; e fine con le geometrie coperte da teli bianchi, allusivi di mobili stipati in un magazzino prima della vendita all’incanto, così come Dumas principia la sua novella. Recitazione molto curata, immaginoso impiego dello spazio, belle idee gestuali ancorché un po’ slegate tra loro.
Cosa che può dirsi anche della direzione di Noseda. Raffinatezze estreme (i due preludi, ad esempio) alternate a momenti come l’Amami Alfredo che, poco preparato com’è, nel suo iperbolico schianto finisce con l’essere d’effetto troppo maramaldo. Accompagna con cura, comunque, un cast che, nel suo insieme, al giorno d’oggi difficilmente potrebbe superarsi.
La Mosuc, come dicevo, canta bene. Acuti e sovracuti nessun problema (qualcuno, invece, sotto il rigo); linea solida e ben proiettata grazie ad appoggio e controllo del fiato entrambi rilevanti: accenta, anche, e se manca quel quid indefinibile fatto di carisma, personalità e fantasia, manca a tante giacché la storia quotidiana del teatro la fanno i solidi professionisti, non le eccezionali meteore. Timbro, mezzi, scolpitura della parola e accento che la vivifica dall’interno anziché scaraventatovi sopra effettisticamente, solidità di linea, luminosa espansione del registro centrale, immediata comunicativa nel porgere: nessun Alfredo, oggi, può anche solo cominciare un confronto con Francesco Meli. Nemorino, Ernesto, Oronte, Alfredo, tutto Mozart (a quando Tito?): questi sono i suoi ruoli, dove oggi c’è solo lui. Faccio voti perché lì resti per un bel po’, a consolidare e sviluppare questo tesoro che si ritrova in gola. Note liete anche per Carlos Alvarez. È il primo Verdi dopo l’operazione alle corde vocali: logico quindi che, al momento, privilegi il forte sul piano, ma è bello risentire il suo magnifico colore, la solidità d’una linea così ben emessa, questa spontanea nobiltà di fraseggio. Bentornato. (10 novembre 2009)
Elvio Giudici