PORDENONE Bruckner Sinfonia n. 5 direttore Kirill Petrenko orchestra G. Mahler Jugendorchester teatro Verdi ***** TORINO Weber Ouverture da “Oberon” Beethoven Concerto n. 5 Schumann Sinfonia n. 3 “Renana” pianoforte Alexander Melnikov direttore Vladimir Jurowski orchestra Bayerisches Staatsorchester auditorium Agnelli (Lingotto Musica) *****/****
Concerti sinfonici da ricordare. In cima quello della Gustav Mahler Jugendorchester che ha inaugurato la sua residenza al Teatro Verdi di Pordenone (con repliche italiane al Ravenna Festival e nella stagione dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia, poi in giro per l’Europa). Notevole occasione di incontrare in Italia fuori dai podi più consueti, anche se non così ricorrenti (Rai e Santa Cecilia), Kirill Petrenko, direttore stabile dei Berliner Philharmoniker. L’orchestra fondata da Abbado con uno sguardo all’Est europeo non targato UE è sempre stata calamita di grandi bacchette: il progetto pontiere abbadiano evidentemente paga dividendi artistici anche ai grandi direttori che si concedono come tutor. E l’entusiasta battipiedi dei musicisti che ha accompagnato le uscite di Petrenko certifica che l’esperienza è stata appagante. Sui leggìi la Quinta di Bruckner, nell’anno del bicentenario del compositore di Sankt Florian: l’opera colossale da sola bastava a risolvere il training orchestrale, oltre che a “fare serata” per un pubblico traboccante. È la sinfonia più sapiente – il dedicatario Liszt la definì, non senza malizia, “gediegen”, solida – del compositore. Che la costruisce come un edificio che si forma man mano: parte tortuoso, labirintico nelle destinazioni, e si conclude in un magistrale movimento contrappuntistico che intreccia non solo i suoi temi propri, ma anche quelli iniziali, in una sorta di ricapitolazione al quadrato. Petrenko si inserisce in una linea, già ampiamente percorsa, antiretorica. Non c’è eccesso di solennità in questa cattedrale, ma energia formale e costruttiva svettante. Però il direttore siberiano aggiunge una sua cifra, meno consueta: lo smarrimento che deriva dalla frammentazione nel primo movimento, dove la sezioni si susseguono a pannelli, tra fragorose esplosioni, espansioni liriche e improvvisi dissolvimenti e silenzi, da una parte; dall’altra il gioco vorticoso, il ludus mercuriale e iper virtuosistico del contrappunto che irrora tutto l’ultimo movimento, risolto in una condizione senza peso, vertiginosa, ad alto rischio. Che i giovani della Gustav Mahler, festeggiatissimi, padroneggiano alla perfezione negli archi, ma anche nei fiati e negli ottoni: quasi annullando le differenze idiomatiche e costruttive tra gli strumenti, offrendole alla tripudiante invenzione d’autore. Ed è proprio questo che resta impresso: la gioia procurata dalla sfida strumentale ingaggiata e vinta, che prescinde da posture solenni ed auliche.
Di contrappunto riluceva anche l’altra eccellente prova sinfonica del mese, quella che la Bayerisches Staatsorchester ha fatto sentire all’Auditorium Agnelli per la torinese Lingotto Musica (che ha toccato pure Lugano Musica e il Bologna Festival). Protagonista Vladimir Jurowski: per coincidenza, coetaneo di Petrenko, russo come lui e suo successore come direttore musicale dell’Opera bavarese di Monaco. Il gesto di Jurowski è meno perentorio di quello di Petrenko, il fraseggio meno teso, profilato, febbrile. Ma i dettagli, le voci secondarie, i controcanti impliciti che si liberano nella sua “Renana” di Schumann sono altrettanto streganti: farne un elenco sarebbe forse inutile, anche se la loro pervasività rende giustizia all’ispirazione polifonica di Schumann, dichiarata nel quarto movimento, omaggio d’autore a Johann Sebastian e alla disciplina bachiana faticosamente conquistata. L’Ottocento sinfonico però non è tutto uguale. Per dire, nell’Ouverture dell’Oberon, Jurowski cerca e ottiene una brillantezza e una cantabilità pensate in senso “orizzontale”, senza intreccio ma in una proiezione governata dalle attese ed epifanie tematiche: che Jurowski sa amministrare da par suo. La formazione a ranghi ridotti, “classico-romantica” (solo quattro contrabbassi, con violini primi e secondi alle estremità), ha impedito di programmare quei titoli tra Otto e Novecento in cui Jurowski eccelle: la programmazione operistica “in sede” non si ferma e limita i viaggi dell’intero organico. Così i bavaresi hanno messo al centro del programma anche un Quinto di Beethoven pregiudicato dalla condotta incerta, di visione e precisione digitale, di Alexander Melnikov; ma hanno anche regalato come bis l’ouverture del Flauto magico: “spessorata” nei tutti d’ispirazione massonica ma affilata e irreprensibile nella trama contrappuntistica. È la migliore orchestra d’opera del mondo? Dagli applausi dei quasi duemila spettatori – un pienone – si direbbe di sì.
Andrea Estero
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