interpreti P. Bordogna, D. D’ Annunzio Lombardi, D. Formaggia, E. Marabelli, D. Colaianni
direttore Vito Clemente
orchestra Sinfonica Gioachino Rossini
regia Roberto Recchia
regia video Roberto Recchia
formato 16:9
sottotitoli It., Ing.
dvd Bongiovanni 20016
Finalmente: si ride. In un’opera dove al più si sghignazzava. Perché le gag non sono caccolacce bensì spruzzi d’ironia; perché i gesti anche esagitati conservano quell’indefinibile eleganza del teatrante che, quando va sopra le righe, s’ispira pur sempre ai grandi testi cui è aduso e sono tutt’altra cosa dall’avanspettacolo rionale; perché una caricatura musicale, per essere davvero efficace, ha da esser comunque musica e non berci. S’è subìta ogni peggior cosa, con quest’opera che ironizza sui vezzi e malvezzi del teatro lirico – provinciale e no, passato ma neppur poi tanto – e che al suo centro piazza la figura della madre invadente affidandola a un baritono en travesti con tutti i rischi in agguato delle Vanzinate più becere. Ma c’è sempre una prima volta: in questo caso a Fano, al delizioso Teatro della Fortuna la cui stagione è all’insegna d’una sperimentazione intelligente nei titoli e nel modo di portarli in scena, che al pubblico fa credito di similare intelligenza nel recepire spettacoli non banali quantunque non dinamitardi nei confronti della loro drammaturgia.
Roberto Recchia non mi aveva del tutto convinto nella sua precedente prova donizettiana, il Don Gregorio, nel quale mostrava comunque un invidiabile senso del ritmo teatrale: qui, costruisce uno spettacolo magnifico in cui ogni idea trova il gesto ideale per esprimersi, e il passo narrativo ha l’agilità d’un vaudeville musicale dove si ritaglia il giusto peso la bravura individuale. Per esempio, il primo tentativo del tenore tedesco Guglielmo di cantare la sua aria. Domenico Colaianni, che è il maestro di cappella Biscroma Strappaviscere, rimbrotta ad ogni frase Danilo Formaggia, suggerendogli qui di aprire il suono là di chiuderlo, talora d’appoggiarlo di più oppure di meno oppure di girare diversamente la nota, più morbido, più incisivo: e immediatamente ascoltiamo il suggerimento enfatizzarsi nel canto, vero e proprio paradigma sonoro delle tanto e tanto empiriche definizioni d’un qualcosa di così fisico come la produzione d’un suono. Sembra facile: ma ci vuole esatto senso del “tempo” da una parte (quello delle favolose “spalle” del teatro di rivista d’una volta: ricordate il sublime Castellani dei film di Totò?), e grande abilità nell’emettere, sostenere, controllare e proiettare la linea vocale dall’altra. Altro esempio: il poeta Salzapariglia suggerisce il testo della rossiniana canzone del salice a mamma Agata che la canta e che, non intendendo, lo sbaglia sistematicamente. Un’eccellente idea. Che non presuppone – com’è invece stata la regola – il sapere a memoria i versi del marchese Berio di Salsa, ma che nel rendere subito percepibili gli strafalcioni consente d’apprezzare tanto l’abilità del Gilardoni nell’anticipare il Beckmesser che stravolge il Preislied, quanto quella di Bordogna nel cantare senza cachinni o miagolate ma sforzandosi anzi di plasmare comunque la melodia rossiniana.
Giacché è quasi matematico: a gesto sorvegliato, mai buttato via nella caccola ma sempre indirizzato a un effetto capace di sommarsi agli altri creando una situazione, corrisponde attenzione costante al canto. In primo luogo quello più esposto, ovvero di mamma Agata. Paolo Bordogna è una forza della natura, in scena: ma è anche un grande cantante-attore, tra i pochi che l’italica scena possa contrapporre alla moltitudine che affolla le altre. Recita quindi con un dominio scenico che gli consente di vestirsi da gran dama tutta in nero e stile Impero, poi d’impersonare la Diva Tragica assisa su un’enorme conchiglia tutta riccioli, persino una ballerina sulle punte che nelle danze dalla Favorita ruba la scena nonché il primo ballerino ad altre due: onnipresente, dilagante, però mai volgare, sempre divertentissimo e soprattutto sempre attento a che la linea vocale resti solida, ben timbrata perché tutta sul fiato, morbida e quindi duttile nel piegarsi alle molteplici sollecitazioni che al fraseggio ispira una fantasia straripante. L’hanno impersonata in molti, mamma Agata: così bene, così personaggio moderno nel coniugare canto e scena, mai, neppure Bordogna stesso che pure da tempo l’annovera tra i suoi cavalli di battaglia.
Altro personaggio a forte rischio di banale caricatura è quello della primadonna. Che, come dovrebbe essere ovvio ma invece accade quasi mai, deve prima d’ogni altra cosa dimostrare d’esserlo vocalmente: Donata D’Annunzio Lombardi canta la difficile aria di sortita e la difficilissima “Bel raggio lusinghier” rossiniana (inserita quale “aria da baule” al second’atto, scelta assai felice) con una linea vocale morbida, scorrevole, dove vanno di pari passo il bel colore e l’omogeneità, da gravi non altisonanti ma comunque ben timbrati, ad acuti anch’essi non al fulmicotone però fermi, luminosi e intonatissimi. Aggiungiamoci una finezza d’accento davvero rara, che nel duetto con l’Agata d’uno scatenato ma mai prevaricante Bordogna costruisce non solo scenicamente, ma soprattutto vocalmente, la riuscita e spassosa parodia del duetto tra le due donne, luogo topico del melodramma ottocentesco. Colaianni e Formaggia sono bravissimi, come anticipavo prima; Enrico Marabelli supplisce con la recitazione e l’accento a una linea vocale un po’ esile; l’orchestra suona molto bene, guidata da una bacchetta piena d’energia, frizzante ma con gusto, con un innato senso del passo teatrale più idoneo alle varie situazioni.
Elvio Giudici