interpreti S. Macallister, M. Wohlbrecht, T. Gazheli, J. Seipp, J. Casselman direttore Stefan Anton Reck regia Walter Pagliaro teatro Petruzzelli
BARI – Non scrocchiano mai i corni del teatro Petruzzelli alle prese con una partitura, quella del Siegfried, che agli ottoni dedica le sue più generose sfide e attenzioni. Bravi, come in quasi nessun altra fondazione lirica italiana. Succede infatti che il vetusto Politeama stia soltanto ora ricostituendo, dopo l’apertura, i suoi propri complessi lirico-sinfonici, attingendo a quella generazione agguerritissima che popola le nostre orchestre giovanili. Ebbene, questi valenti musicisti, a differenza che altrove, lavorano con un contratto a tempo determinato; mentre il decreto Bondi riduce o annulla la possibilità di assumerli in organico, col rischio di farseli scappare. L’Italia è proprio un paese per vecchi.
L’entusiasmo di una Fondazione giovane traspare dovunque. “Io Petruzzelli” recitano le magliette sportive delle maschere, mentre il pubblico riempie la sala. Si va in scena lo stesso, nonostante le notizie che giungono da Roma. E si rappresenta addirittura la seconda giornata dell’Anello, dopo il Prologo al Piccinni e la prima in un padiglione della Fiera del Levante. Servono impegno e risorse per allestire un Ring, molte di più di quelle, centellinate, che arrivano dallo Stato e dalla Regione. Ma il sovrintendente e direttore artistico è di quelli ostinati e preparati, che parlano col pubblico e spiegano sul programma di sala la necessità e la bellezza di un’opera, di uno spettacolo. Del perché Sigfrido deve approdare per la prima volta a Bari.
Musicalmente è un’edizione notevole, quella presentata come fiore all’occhiello della stagione di quest’anno. Il cast, con l’eccezione della Brunilde instabile di Jayne Casselman, è una bella scoperta. Niente “nomoni”, ma le ottime voci di Thomas Gazheli (Wotan), Joachim Seipp (Alberico) e Matthias Wohlbrecht (Mime). Anche Scott Macallister è un Sigfrido educato, anche fin troppo nello squillo. Stefan Anton Reck li sostiene con una direzione che non prevede indugi, respiri, sprofondamenti nel magma wagneriano. I tempi spediti e attenti alla recitazione ci riportano alle origini del Siegfried come fiaba. Alla pura e quasi disimpegnata teatralità.
Alla dimensione metateatrale del Ring, invece, ci aveva già pensato Herbert Wernicke, ambientando il suo Oro all’interno del Festspielhaus di Bayreuth (suggerendo quindi l’identificazione degli dei con gli stessi Wagner). Ora Walter Pagliaro torna sulla metafora, portando il primo atto nelle cantine/fucine di un palcoscenico (tra l’attrezzeria, in mezzo a un orso perfetto per Siegfried fa capolino anche un cigno); il secondo nel palcoscenico di un teatro-nostalgia dove prendono forma i sogni, anche i più ingenui come quelli di un drago che difende un tesoro; l’ultimo tra le poltrone di una platea, luogo dell’incontro e del confronto, anche tra i due nuovi amanti (obbligatoria l’identificazione del rogo di Brunilde con quello del Petruzzelli). Solo che all’intrigante impianto non corrisponde una conseguente gestualità, modellata su quelle inedite situazioni. I personaggi si muovono secondo indicazioni convenzionali, senz’altro utili all’alfabetizzazione dell’opera. Trova spazio, semmai, qualche annotazione di natura psicanalitica, secondo cui la ricerca della madre da parte di Sigfrido coinciderebbe con il suo percorso di maturazione sessuale (che infatti lo porterà fino a conoscere Brunilde). Da cui gli sporadici strusciamenti vagamente fetish su ciò che resta della veste di Siegliende e il duello con Wotan ambiguamente fallico (la mia lancia contro la tua spada). Ma come si conciliano questi rimandi con l’impianto metateatrale, peraltro solo impostato? Insomma il regista mette tanta carne al fuoco, ma poi non sembra “cucinarla” fino in fondo.
Andrea Estero