interpreti F. Lis, S. Prina, J. M. Zapata, J .Martin-Royo, C. Senn, F. Polinelli
direttore Jean-Christophe Spinosi
orchestra Ensemble Matheus
regia Giorgio Barberio Corsetti
regia video Philipp Béziat
formato 16:9
sottotitoli Ing., Fr.
dvd Naïve V5089
Ecco il tipico caso in cui le famigerate stelline di merito imbarazzano maledettamente. Troppo netto, difatti, il divario che in questo spettacolo (nato a Parma con l’orchestra locale e portato in seguito a Parigi) separa la parte video da quella musicale: splendida la prima, insufficiente la seconda.
Palcoscenico tutto vuoto, immerso nella luce blu propria tanto delle favole quanto del musical. Vanno e vengono modellini di scenografie che minuscole telecamere pantografano su sei schermi fatti salire e scendere sul fondo. Ed ecco la magia del digitale. In tali schermi, sparisce tutto quanto è blu, ovvero i colore destinato a tutto ciò che serve all’ossatura della vicenda: ovvero dei parallelepipedi impiegati su cui i personaggi siedono o da cui traggono oggetti vari; nonché servi di scena in calzamaglia e passamontagna impiegati per sistemare tali oggetti e sostituirli con altri. Mentre i personaggi che tra essi si muovono (abbigliati da Cristian Taraborrelli in coloratissimi abiti anni Cinquanta, tra lo chic e lo sciamannato, dai quali ovviamente manca del tutto l’azzurro), in quegli stessi schermi invece si vedono: entrando così a popolare un mondo virtuale costruito tutt’intorno a loro dalla computer graphic ricavata dai modellini scenografici, nei quali pure manca il blu. Virtuale dunque, il mondo che in tal modo si crea: reso attraente e “grandioso” dai rutilanti colori d’architetture di interni e di esterni nelle quali allegramente convivono rigore da Bauhaus e giardinetto pacchiano delle villette a schiera del Nord Est con colonnine e fontanelle, assenti solo gli abituali nanetti e Biancaneve.
Mondo dove si gioca a tennis con una pallina appesa alla lenza manovrata dal servo di scena ma gli schermi – dove lenza filo e servo, essendo blu, spariscono – esaltano acrobazie le più spericolate ma anche le più finte: al pari dell’omelette che va in aria, si capovolge due volte, torna in padella e finisce nei piatti, capolavoro di chi pare cuoco a tre stelle nel video ma è illusionista di tre cotte nella realtà, dato che l’omelette è appesa a un filo blu che pertanto non si vede. C’entra, con l’opera, tutto questo iradiddio digitale? Sì.
La pietra del paragone è il denaro, che posseduto dal conte Asdrubale lo rende fulcro d’una corte di sgallettate, cronisti e pennivendoli tutti in fame cronica di soldi e visibilità. Tra i quali distinguere un amico e un’innamorata veri è possibile solo ove la finzione virtuale la si smascheri neutralizzando gli schermi, ovvero facendo credere che soldi e successo siano svaniti: scoprendo così i molti che scappano e i due soli che restano. Lo spettacolo dunque va, corre leggero spruzzando vetriolo satirico: ma da innaffiatoi di foggia leggiadra. Fa capriole sentimentali e sberleffi atroci: ma col lieve innuendo delle sublimi pellicole di Lubitsch e del suo figlio ideale Billy Wilder. Fa pure ridere, benché si rida verde: ma soprattutto fa pensare, in un’epoca che tale esercizio pare aborrire. Al geniale folletto Pierrick Sorin artefice delle immagini, c’è da esserne grati senza riserva. A Giorgio Barberio Corsetti, autore nominale della regia, forse anche: benché la regia in sostanza siano quelle immagini, traduzione perfetta del meccanismo a orologeria musicale che della scrittura di Rossini è tratto il più personale, il più moderno, ma anche il più difficile a rendersi.
Grazie comunque a loro due, la pedestre e grigiastra bacchetta di Jean-Christophe Spinosi sembra persino più ariosa, in virtù anche della duttilità consentitagli dal dirigere il proprio complesso: col quale si attenuano le molteplici difficoltà che Spinosi invece incontra con le orchestre normali, al pari di quasi tutti i direttori nelle sue stesse condizioni. S’attenuano, ma restano: l’acidità dei suoni va di pari passo con la rigidità metronomica delle scansioni ritmiche, senza un rubato che uno, l’asfissia che strozza il canto strumentale contagiando ben presto il palcoscenico. Dove, comunque, se memorabili sono dal primo all’ultimo per quanto concerne una recitazione che pare uscita da un film di Wilder, di vocalmente memorabile c’è solo Sonia Prina. Che ha tuttavia lasciato a Parma Michele Pertusi, suo originario e ideale partner: François Lis ne è copia pallida fin all’evanescenza, la corposa vocalità di Asdrubale ridotta a snervati pigolii, e la sua reboante coloratura ad aciduli gargarismi. Delle due damazze che infestano la casa del Conte, la Fulvia di Laura Giordano è brava, l’Aspasia di Jennifer Holloway invece no. Dei due manutengoli, il Macrobio di Joan Martin-Royo è sfocato, flebile e d’accento piatto, mentre il Pacuvio di Christian Senn, quantunque zanzarina, fraseggia con spirito e carattere oltre a cantare piuttosto bene. Bravo ancorché piuttosto ingolato in alto il Giocondo di José Manuel Zapata.
Elvio Giudici