interpreti A. Eichenholz, M. Volle, K. F. Vogt, J. Larmore, G. Howell, P. Rose, P. Langridge
direttore Antonio Pappano
orchestra Covent Garden
regia Christof Loy
regia video Robin Lough
formato 16:9
sottotitoli Ing., Fr., Ted., Sp.
2 dvd Opus Arte 1034
Molto discusso, questo spettacolo. Una Lulu improntata ad un minimalismo che impossibile è immaginare più drastico. Parete di fondo fatta di materiale semitrasparente, poggiata su una pedana lievemente rialzata e avanzata fino a un terzo di palcoscenico; una sedia, che peraltro resta solo nel corso d’un atto e mezzo. E basta. Tre ore e venticinque minuti di solo questo. Lulu è forse l’opera col dialogo più fitto di tutto il teatro musicale: sicché, nell’assenza d’ogni nascondiglio o diversivo eventualmente offerto da scene e oggetti, ciascuno dei molti personaggi è a nudo al pari dei relativi loro rapporti reciproci. Nessun uomo di teatro, mi pare chiaro, crea simile sfida se non ha un progetto ben definito, peraltro riassumibile in una parola: recitazione. Nell’organizzare la quale, il risultato cui Loy perviene, attraverso un sapientissimo mix di immedesimazione e straniamento di tipo espressionistico (i morti, finita la loro funzione, si alzano e se ne vanno; chi non deve più essere in scena, si gira verso la parete e “non c’è più”; un cono di luce rende diversa la situazione d’un personaggio che “si nasconde”; e così via), a me pare straordinario. Va però subito aggiunto che tale non potrebbe essere ove Loy non avesse trovato totale sintonia con Pappano.
Una direzione, la sua, intensissimamente teatrale. Nella quale trasparenza e nitidezza dei profili tanto ritmici quanto melodici sono impiegate ad accentuare una chiara impronta tardomahleriana: depurata, tuttavia, stilizzata in una melanconia dolorosa e intensissimamente sensuale. Come se l’Adagio della Decima avesse concentrato nell’universo claustrofobico di Lulu i propri due temi – ampio e densamente lirico l’uno, terso e scintillante l’altro – che non si sviluppano ma sono sottoposti a variazione continua. Chi è Lulu, per Pappano e Loy? Innanzitutto, una donna che non è né vittima né femme fatale ma qualcosa che le assorbe entrambe: un concentrato di femminilità che stabilisce un’attrazione ossessiva col Dr. Schön. È evidente dal trattamento riservato al ritratto di Lulu, perno narrativo dell’opera. Ritratto che non c’è. Di volta in volta, quando i diversi temi che lo riguardano vengono in primo piano, un cono di luce isola Lulu contro la parete di fondo, sola o – più spesso – accanto a un altro personaggio: e alla fine, dopo che lei è uccisa fuori scena da Jack, resta solo il cono di luce, nel quale la Geschwitz (cui semplicemente Jack dice “anche tu ne hai per poco”, senza accoltellarla) entra lentamente, quasi dissolvendosi in quella luce. Lulu, insomma, trae la propria esistenza dal come viene vista dagli altri: lei, indifferente a tutto tranne che al suo profondo legame con Schön, assorbe come una spugna. Infantile, totalmente enigmatica. Ma quando uccide Schön, prende coscienza di sé, diventa consapevolmente manipolatrice: essendo però morta dentro, perde la propria bellezza, sembra davvero un’altra.
Gesti piccolissimi, camminate, soprattutto un continuo guardarsi o evitare lo sguardo degli altri: su questi minuscoli tasselli, si costruisce una regia grandiosa. Si potrebbe pensare che in questo modo la vicenda perda completamente di chiarezza: è vero l’opposto. La vicenda ruota per intero sui diversi rapporti reciproci, e sul loro continuo evolvere: raramente, forse mai, sono apparsi altrettanto nitidi grazie agli infiniti tocchi rivelatori trovati da Loy.
In modo particolarissimo, colpisce il terz’atto: di cui viene dunque perentoriamente riaffermata l’assoluta necessità. I tre personaggi impersonati dai tre mariti di Lulu compaiono così come li si è visti in occasione della loro rispettiva morte, ma in modo genialmente diverso: il Professore/Primario fulminato per l’infarto; il Negro/Pittore con la gola squarciata, che con la sua fredda lussuria provoca la disperazione di Alwa che segue il suo esempio tagliandosi la gola (la sua morte assumendo così una valenza tragica ancor maggiore); Jack/Schön ha la camicia zuppa di sangue.
Naturalmente, niente di quanto detto fin qui avrebbe l’importanza che ha ove ogni componente del cast non fosse un artista completo, capace di cantare e recitare in modo ugualmente formidabile. Agneta Eichenholz era in pratica sconosciuta, prima che col coraggio indispensabile a un vero direttore di teatro, Pappano affidasse a lei il ruolo rinunciato da Aleksandra Kurzak preparandola assieme a Loy per un anno e mezzo. Che si vedono tutti. Di bellezza non appariscente e perciò tanto più intrigante, la sua figura “emana”: cosa indispensabile, in un’impostazione siffatta cui tuttavia necessita l’apporto non meno indispensabile del secondo tassello costituito dal canto. Magnifico: voce chiara, duttile come lucido mercurio, musicalmente sicurissima, che l’accento intride d’una sensualità fatta crepitare tutta sottopelle, lievi accenni ma affilati come lucide lame. Un prodigio, né più né meno. Come lo è l’intero cast, dal primo all’ultimo. Michael Volle aggiunge un altro sensazionale personaggio alla sua stupefacente galleria di cantante-attore; Klaus Florian Vogt canta l’Inno di Alwa cantandolo proprio, a differenza di quasi tutti che lo parlano o lo gridano: voce splendida, linea sicura e luminosissima, accento di vibrante passionalità. Jennifer Larmore è una Geschwitz ideale tanto come voce quanto come fisico. Gwynne Howell compone uno Schigolch stralunato uscito dritto dritto da un film espressionista, con delle occhiate che non si dimenticano più. E la folta schiera dei personaggi di fianco eleva un vero e proprio inno al caratterista come l’intendono in Inghilterra, cioè a dire il migliore del mondo: da Peter Rose a Jeremy White, da Heather Shipp a Will Hartmann. Fino al sublime Philip Langridge in una delle sue purtroppo ultime apparizioni: formidabile Principe, inquietante Marchese, è tuttavia nella minima parte del Maggiordomo che attinge al capolavoro: un Jeeves capitato in un film di Fritz Lang, rigido e ghiacciato ma con occhiate, certe occhiate… addio, sir Philip, e grazie: il palcoscenico è adesso più povero.
Elvio Giudici