interpreti N. Stemme, W. Meier, V. Kowaljow, S. O’Neill, E. Gubanovadirettore Daniel Barenboimregia Guy Cassiersteatro alla ScalaMILANO
MILANO – Nelle settimane che hanno visto prefigurarsi il naufragio delle Fondazioni liriche, con lo stralcio dell’integrativo al Fus dalla finanziaria, si conferma una certezza. La Scala c’è. E lo ha dimostrato pienamente con le inaugurazioni delle stagioni di opera e di balletto (un Lago dei Cigni di lusso diretto da Barenboim), oltre che con il Concerto di Natale affidato a Daniele Gatti. Qui abbiamo assistito alla piena riconciliazione con la lingua universale del melodramma verdiano. Coesione esecutiva, senso della parola e del teatro in ogni nota, capacità di ripensare la tradizione, scomponendola e ritrovandola nuova: La Scala e Gatti c’erano.
Dal Verdi d’autore al miglior Wagner, Daniel Barenboim ha impresso sul Ring scaligero il sigillo delle cose notevoli. La sua Valchiria ha una “tinta” individuale. L’Oro era dinamico e brillante, proiettato sulle azioni e i pensieri degli dei; il Tristano lento, immenso, “filosofico”. Ora le passioni troppo umane di valchirie ed eroi sono declinate secondo il lessico di un’autentica estetica romantica: entusiasmo melodico sorgivo, cesello umoristico dei particolari, immaginativo virtuosismo strumentale. È l’orchestra di Schumann e di Mendelssohn, di Berlioz e di Liszt, quella che intreccia con la parola dialoghi sensibili e s’impenna nei quadri a più alto tasso descrittivo. Altro che prefigurazioni e degenerazioni del wagnerismo che verrà. La scarna e ossuta introduzione del primo atto potrebbe al contrario essere l’incipit di un poema sinfonico lisztiano, il “duetto” tra tenore e soprano possiede lo slancio emotivo di un Lied. Anche Berlioz avrebbe forse concepito una cavalcata “in levare” e tutto sommato sbrigativa come questa. E i monologhi di Wotan, non suonano, ora come allora, quasi verdiani? D’altra parte Valchiria è una partitura di metà Ottocento, che Barenboim ricolloca nella sua verità storica e nella sua dimensione cosmopolita. Non solo opportunamente, ma anche magistralmente.
In una direzione diversa va la partitura “visiva” di Cassiers. E non è detto che i due piani non si possano in qualche punto incontrare. Se Barenboim opta per il “realismo” (alla Dahlhuas, come spirito del Vormärz), Cassiers risponde con una visione tutta simbolica. Davvero siamo di fronte a uno spettacolo che non può essere giudicato con le categorie consuete di regia e scenografia. Qui i due concetti si confondono: le scene non sono ambienti e decorazioni, ma “parlano”; e i personaggi non restano gli unici depositari dei significati, ma sono parte di un più ampio apparato di segni. Nel primo atto la nuova sintesi funziona alla perfezione: perché se la casa di cartapesta e ombre di Hunding è già il simbolo della grettezza e dell’oppressione che vi abita, Waltraud Meier e John Tomlinson, incensurabili soprattutto come attori, la riempiono con gesti pregnanti, intensi, ma poi soffocati. Da brivido. Molto riuscita anche la raffigurazione della foresta come selva di lance su cui vengono proiettate le leggi immobilizzanti degli dei, e dove si perdono i due amanti, tra cui un Simon O’Neill di appassionato temperamento ma opaco di squillo. Altrove il gioco scenico è invece fin troppo ridotto: l’immobilità forzata del Wotan del sensibile Vitalij Kowaljow funziona come specchio delle sue costrizioni; ma la gestualità personale eppur generica di Brunilde (la svettante e spavalda Nina Stemme) e quella sempre in posa di Fricka (la solida Ekaterina Gubanova) spengono troppo spesso l’azione.
Andrea Estero