interpreti S. Verrett, L. Pavarotti, C. MacNeil, F. Corena
direttore James Conlon
orchestra Metropolitan di New York
regia Tito Gobbi
regia video Kirk Browning
formato 4:3
sottotitoli It., Ing., Fr., Ted., Sp., Cin.
dvd Decca 0743410
Si ha un bel dire – bastano cinque minuti – che questo telecast del Metropolitan, realizzato nel 1978, fa vedere uno spettacolo neppure vecchio ma proprio decrepito. Tito Gobbi, grande attore, è regista un tantino scolastico e non granché felice nel muovere le masse al finale primo; per giunta, deve costruire la propria regia all’interno di scene preesistenti e di singolare bruttezza. Dunque, eleviamo i consueti lai a proposito d’uno di quei tipici non-teatri fatti di gesti resi altrettanti stereotipi da tradizione immutabile: faccia costantemente rivolta al pubblico, pose tribunizie, caccole a gradiente variabile di ridicolo prodotte un po’ da tutti con menzione speciale per gli usuali terrificanti cachinni del Sacrestano. Tutto vero. Però si canta. Canto un po’ troppo ostentato, d’accordo: ma la materia da ostentare c’è, accidenti se c’è.
D’accordo, Pavarotti spara il solito “Recondite armonie” che tutto è all’infuori d’una riflessione tra sé e la propria tavolozza, per inclinare piuttosto al comizio: ma è gran comizio prodotto da una voce solida, di timbro solare, dizione scolpita, uguaglianza e compattezza nell’ambito d’una proiezione le cui facilità e perfetta “messa a fuoco” consentono variazioni dinamiche d’effetto spettacoloso. Antico, magari, per il gusto odierno: ma sempre spettacoloso. Anche perché poi c’è la solita faccenduola del carisma. Quella cosa che quando uno agita il dito con fare civettuolo, che salta sulla pedana e platealmente punta in aria due volte il pennello “facendo gli occhi neri” all’occhicerulea Maddalena, poi allarga le braccia con sonorissimo sospiro rivolto al pubblico tirandolo quasi a forza verso l’applauso: quella cosa lì, la fa uno qualunque e tu rabbrividisci; la fa Big P, e tale è lo spontaneo carisma che l’accetti anche adesso, perché ti viene fatta avvertire come l’unica possibile per una voce così e per un modo d’emetterla così, ivi compresi si bemolli e naturali così, cioè a dire al fulmicotone.
Senz’altro più moderna, e di parecchio, Shirley Verrett: ma il carisma, sempre quello antico è. Lasciamo stare le considerazioni sulla sua decisione di assumere parti sopranili, lei che era in possesso d’una delle voci mezzosopranili più luminose, facili, squillanti, sicure e insomma fascinose del dopoguerra, nella quale il registro acuto costituiva tanta e tale “riserva”, per così dire, da indurre fatalmente al solito errore, quantunque meglio padroneggiato di quanto riuscisse a una Bumbry, voce per molti versi simile ancorché non altrettanto fascinosa oltre che al servizio di personalità troppo diva per essere anche artista. Decisione dunque infausta, a mio avviso, il diventare la Verrett un soprano: ma decisione che per un pugno d’anni le consentì risultati superbi. Questa recita è al centro di quegli anni: tre dopo la Lady scaligera; cinque dopo che aveva basito il Metropolitan (dove Bing, che non l’amò mai, era uscito di scena) sostituendo la Ludwig malata nei Troyens e cantando quindi sia Cassandra sia Didone nella stessa sera; due dopo che aveva cantato Norma e due settimane appresso Adalgisa.
Non mi dilungo in esempi, ché ogni frase per un verso o per l’altro ne suggerirebbe uno: mi limito a dire che, per come la vedo e la sento io, così bella, così ben cantata, così benissimo accentata, così carismaticamente gestita (certe camminate, e ancor più certe occhiate di quegli “occhi neri” davvero magici! E quella naturalezza, poi, che risolve i momenti più scabrosi del second’atto – tortura, aria, controscena del salvacondotto, omicidio, pantomima, uscita – senza una sola caduta di gusto, crescendo quindi continuamente, sempre credibile, sempre affascinante, sempre grandissima artista), così capace di far perfettamente convivere la sensualità della donna e la fragilità della diva, Tosca lo è stata molto, molto di rado. Salutata, alla fine, dai celebri “confetti”, quei fogliolini di carta che dall’alto piovono sull’artista al proscenio, e che da sempre rappresentano il conferimento dell’Oscar da parte del pubblico del Met: strasacrosanto.
Cornell MacNeil era da vent’anni una delle più solide colonne del Met, dove cantò oltre cinquanta ruoli diversi lungo un arco della bellezza di 650 recite: ma il cavallo di battaglia di Big Mac fu sempre Scarpia. È evidente quanto Gobbi curi il suo personaggio, del quale fa difatti riprodurre tutti i gesti più tipici cui s’aggiunge quel ghigno sardonico e maligno che a MacNeil riusciva così bene. Ma se i gesti ricalcano (bene, ma oggi parecchio invecchiati purtroppo) i più consolidati stereotipi del bieco cattivo con voglie lascive, vecchia non è affatto la voce. Governata da tecnica antica, quella che l’emissione la sorregge tutta sul fiato, assicurandole proiezione di solidità granitica: una colonna enorme, tutta uguale nel colore e nella fermezza, a compenso di quella tal quale genericità nell’accento che peraltro qui è molto minore del solito, grazie probabilmente ai preziosi suggerimenti di Gobbi.
Sul podio, un Conlon ventottenne che aveva debuttato al Met già due anni prima con un Flauto salutato da grande successo: replicato qui da una direzione agile, nervosa, attentissima ma nient’affatto supinamente prona al canto, che quindi valorizza con già quella grande sensibilità teatrale che gli assicurerà il lusinghiero prosieguo di carriera.