interpreti L. Nucci, S. Valayre, E. Iori, R. Iuliano
direttore Bruno Bartoletti
orchestra teatro Regio di Parma
regia Liliana Cavani
regia video Andrea Bevilacqua
formato 16:9
sottotitoli It., Ing., Fr., Ted., Sp.
dvd Arthaus 107313
Lo spettacolo della Cavani è parecchio intellettuale: dando una volta di più al termine un connotato tendenzialmente negativo. La scelta del teatro-nel-teatro, ancorché ormai frusta come Noè, potrebbe comunque aspirare ad essere funzionale ove si riuscisse a farla veramente interagire con la narrazione: porla come cifra generica e neppure didascalica bensì solo estetica (stanno lì, e amen), è teatralmente inerte e narrativamente inefficace. Peggio ancora è l’immettere, in una narrazione già sghemba, dei quiz a soluzione incerta quindi multipla: che con Verdi (sempre, ma con questo Verdi in modo particolare) sono controproducenti giacché il suo teatro è sempre teatro di situazioni, traendo la propria sublime efficacia proprio dall’essenzialità d’ogni sua componente. Allora il nano vestito come un buffone di corte ma con lunga e grossa coda di topo, che accompagna Lady al prim’atto, cosa significa veramente? Incubo, psicologia contorta, inconscio, rappresentazione sintetica del sovrannaturale come terza prospettiva di contrasto (e lo sembrerebbe, dato che sarà lui a porgere a Macbeth il pugnale, girandogli poi freneticamente tutt’intorno, come a creare un gorgo invisibile)? Non ci viene mostrato mai con chiarezza, mentre quanto vediamo è goffo, d’uno sgradevole così manierato e lambiccato (l’intento potrebbe persino essere didascalico, vagamente alla Brecht) da decolorare subito ogni sgradevolezza in un forte rischio di comico involontario, aggravato dal fatto che a un certo punto il nano sparisce e nulla ci vien detto su che fine abbia fatto.
Evidente, comunque, come lo spettacolo si proponga di mettere a fronte due concezioni antitetiche di vita: quella (di fattezze e abiti rinascimentali) che contempla senza agire, come fosse davanti a una recita senza accorgersi che il teatro parla pur sempre di noi, come ci viene indicato dai sicari che indossano la stessa gorgiera di molti spettatori; e quella sovrannaturale, rappresentata dalla solare mediterraneità di popolane intente a lavare i panni all’aperto, tutte insieme. Sono loro, le depositarie d’una saggezza antica, dionisiaca, miscuglio strano dove la malattia psichica si confonde con la possessione demoniaca bilanciando la maledizione d’un male con un dono profetico entrambi elargiti da un Dio, topos tra i più radicati nella tragedia greca. Così, se la medicina chiamerà affetta da epilessia quella che la tradizione popolare definisce “tarantolata” in un convulsione che il teatro metaforizza in danza ossessiva (e la Tarantella, non si dovrebbe scordare mai come derivi proprio da tarantola, e sia pertanto necessario imprimervi qualcosa di molto lontano dal simpatico e casalingo folclore), la stessa atavica consuetudine attribuisce poteri divinatori alla tarantolata e ai suoi enigmatici, inquietanti movimenti.
La piazza col lavatoio è dunque elemento scenografico centrale, circondato da palchi di legno negli ordini inferiori dei quali (quelli superiori ospitano solo manichini) prendono posto gli spettatori rinascimentali per dar corpo a questa contrapposizione. C’è anche posto per l’ironia, ma è ironia sempre molto intellettuale. Come nel balletto con coro delle Ondine e Silfidi, di cui la Cavani viene a capo producendosi in una danzetta a sfondo vagamente erotico con la spada di Macbeth.
Non c’è comunque solo l’idea delle streghe-popolane-lavandaie, a dare spessore a uno spettacolo cervellotico ma non banale. Bella ad esempio l’idea della Lady intrisa di superstizione analoga a quella del popolo (da sempre, le dame in visita ai maghi s’incontrano con le loro serve), che nel corso dell’aria di sortita vediamo intenta a leggere i tarocchi. Una Lady dalla marcata componente sessuale: molto seccata di dover interrompere le effusioni al marito al risuonare della “musica villereccia” che introduce Duncano; e scatenata adescatrice nel banchetto, dove flirta apertamente con tutti i maschi presenti tra l’impotenza sempre più stravolta di Macbeth. Anche la gestualità minuta è nel complesso efficace. La mano ad artiglio posata da Macbeth sul viso del sicario che gli ha comunicato la notizia della morte di Banco. La bevanda che le lavandaie propinano a Macbeth venuto a farsi predire la sorte, il sovrannaturale ridotto in tal modo a quanto tanto spesso è veramente, un effetto allucinogeno. Macbeth raggomitolato sul trono, avvolto nel manto dorato e con le mani avvinghiate allo scettro, a ricordare il passato e prevedere un rabbrividente futuro nello srotolarsi dell’ultima aria (che Nucci canta veramente bene). Il silenzio nel quale Macbeth si spoglia del manto e indossa la corazza dorata, come una vestizione di morte.
Sempre solida, la linea di Nucci: gli acuti sono fermi, facili e sicuri, mentre i gravi sono ancora note e non aria calda; se la duttilità nel modulare l’emissione è ridotta (così che limitati al minimo indispensabile sono i piani, mentre eliminati in toto sono i pianissimi di cui peraltro non è stato prodigo mai), il fraseggio riesce a plasmare personaggio sufficientemente sfaccettato, aiutato in parti uguali dalla grande esperienza e dalla sapiente concertazione di Bartoletti. La Lady della Valayre, per contro, la si apprezza più per mancanza di valide alternative che per realtà di canto, tirato, fisso e stridulo com’è. Piuttosto arido e gessoso – ma più per ragioni di tecnica fallosa che di natura timbrica – il Banco di Iori, discrete ma poco più le parti di fianco e il Macduff di Iuliano.
A reggere le sorti dello spettacolo guidandolo in porto nonostante tutto, è Bruno Bartoletti. Tempi perfetti sia nel mantenere sempre in tensione l’arco narrativo, sia nel definirne l’articolazione psicologica attraverso sfumature dinamiche e cromatiche di tanto più significative in quanto immuni da ogni manierata lambiccheria (l’introduzione al sonnambulismo!); perfetto accompagnamento al canto, con un’orchestra che canta sempre e col canto colorisce, sceneggia, racconta. Direzione insomma, che nella sua immediata comunicativa si rivela tipica di chi proviene dalla gloriosa tradizione teatrale italiana ma in essa non s’è mai fossilizzato, ricavando dalla frequentazione sinfonica quel respiro strumentale senza il quale Verdi sfuggirà sempre di mano. Sotto la sua bacchetta, l’orchestra attinge a un livello che dopo la sua partenza da Parma non ritroverà più; ma addirittura strepitoso il coro di Martino Faggiani, che plasma un “Patria oppressa” da antologia, apice d’uno spettacolo forse più da ascoltare che da vedere, ma comunque da conoscere.
di elvio giudici