Handel – Theodora

Handel - Theodora

Interpreti C. Schäfer, B. Mehta, B. Fink, J.M. Kränzle, J. Kaiser
direttore Ivor Bolton
orchestra Freiburger Barockorchester
regia Christof Loy
regia video Hannes Rossacher
formato 16:9
sottotitoli Ing., Fr., Ted., Sp.
2 dvd Cmajor C70570

La scena è sostanzialmente la piattaforma della salisburghese Festspielhaus com’è quando si esegue un concerto sinfonico, salvo che l’orchestra è in buca e le sedie per gli orchestrali sono su file orizzontali verso la platea, occupate dal coro. Sul fondo, l’unico elemento scenografico: un enorme organo che ha l’aspetto della facciata a capanna d’una chiesa romanica. Coro e protagonisti maschili in smoking, donne in nero corto tranne Theodora in bianco. Loy del più tipico, insomma: tempo presente ma trattato come fuori dal tempo, concentrazione massima ed esclusiva sui singoli, cui qui s’associa il coro ma trattato come una moltitudine di singoli, ciascuno con una riconoscibile personalità pur nella generale atmosfera di sudditanza pecorona al potente, di cui vistosamente approvare ogni parola o gesto. Ma cristiani e romani sono identici: come dire, nel modo più semplice (però un po’ limitativo), due facce della stessa umanità.
La colonna vertebrale dello spettacolo è l’alternanza tra pagine solistiche e corali, tradotta nella maggior parte dei casi con una successione di fermo-immagine e azione: quando canta il singolo, il coro è immobile, e viceversa; entrambi muovendosi invece nelle pagine solo strumentali. Se notevole è la fluidità che presiede all’esecuzione (nella quale l’improvviso raggrumarsi di movimenti e gesti che pongono in relazione due figure riesce piuttosto efficace; riuscite pure certe pagine corali quali la condanna di Theodora), nondimeno ci viene chiarito ad ogni istante che stiamo assistendo a un oratorio. Accidenti, se lo è. Vanno bene stilizzazione e purezza gestuale che (non sempre) accrescono l’intensità espressiva: ma in una narrazione nella quale il colloquio non oltrepassa i dieci minuti delle tre ore complessive, il rischio che la staticità non sia concentrazione drammatica bensì monotonia, è grande. Né vale la considerazione che allora la recita da concerto? Quando si va al concerto, l’attenzione è esclusivamente sulla musica e sugli accenti espressivi coi quali la movimentano gli interpreti: se c’è una scena, l’orecchio ascolta ma l’occhio deve per forza rapportarvi quanto vede. Questa, è sostanzialmente poco più d’una recita in forma semiscenica. Non è bello insistere sempre sui paragoni, ma anche nell’impianto semiscenico (e dunque non solo nella sua eccelsa, ben altrimenti teatrale Theodora di Glyndebourne, presente in dvd) Peter Sellars ha offerto esempio geniale con la Passione secondo Matteo diretta da Simon Rattle a Berlino e Salisburgo: un qualcosa che questa recita non vede neppure da lontano.
La parte musicale ha per me un solo nome: Bejun Mehta quale Didymus. Eccezionale: voce stupenda, linea di robustezza e flessibilità senza confronti, con coloratura superba e legato da commuovere i sassi, accento che lavora su ogni sillaba con l’aiuto d’una dizione spettacolosa. Non sta un gradino sopra gli altri, Mehta: li sovrasta di un’intera rampa. La Schäfer s’impegna come suo solito, ma la voce è davvero piccina, ancor più aguzza per l’evidente spinta cui è sottoposta di continuo (probabilmente per riuscire a farsi percepire in sala così vasta: ma già si sente non troppo in registrazione…), con una coloratura tutta strappi, scalini e aspirate che arriva abbastanza prossima allo strazio. Nei recitativi è molto espressiva, nelle arie molto meno. Joseph Kaiser è solo bravino, Kränzle piuttosto rozzo anche indipendentemente dalla proterva ruvidità del personaggio, la Fink canta benissimo ma anche lei soffre d’una tal quale opacità di risonanza, e il fraseggio è comunque monotono. Nella parte del Messaggero, si rivede e risente Ryland Davies, glorioso tenorino degli anni Settanta. Coro senz’altro bravo ma preoccupato molto più della precisione che dell’espressione, accompagnato da un’orchestra un po’ greve, con la quale Bolton è molto meno “narratore” del solito.


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