Interpreti I. Theorin, W. Meier, E-M. Westbroek, R. Pape, R. Gambill direttore Daniele Gatti orchestra Wiener Philharmoniker regia Nikolaus Lehnhoff regia video Thomas Grimm formato 16:9 sottotitoli It., Ing., Fr., Ted., Sp. dvd Arthaus 101559
Di primo acchito, la scena di Raimund Bauer potrebbe sembrare ispirata al famoso allestimento cinematografico di Götz Friedrich, che poi a sua volta riassumeva quanto sembrò a lungo l’unico modo possibile di mettere in scena quest’opera (e che molto spesso continua a sembrare, anche perché risolve molti problemi nel modo più spiccio): un locus conclusus che declini in vario modo una claustrofobia fisica ma soprattutto mentale, espressa in chiave a vario gradiente espressionistico. Potrebbe sembrare: ma non è affatto, e la differenza è solo in meglio giacché riguarda quanto davvero fa teatro, vale a dire la recitazione. Sopra un irregolare rialzo roccioso vediamo un enorme cubo dalle pareti in simil-marmo venato di scuro, doppiamente inclinato all’indietro e a destra, bucherellato ai lati e in basso da aperture quadrate o rettangolari, mentre il lato di fondo è chiuso da una liscia parete nera. Il regista televisivo Grimm enfatizza tale visione prospettica privilegiando riprese fortemente angolate dal basso: così come nel corso della vicenda saprà assecondare ogni movimento registico con inquadrature che ne esemplificano magnificamente il senso sia narrativo sia psicologico.
In questo, la simbiosi con la direzione è perfetta. Gatti indirizza la magnifica orchestra verso uno scavo analitico che t’illumina ogni minimo anfratto armonico; ti fa seguire ogni giravolta del fitto cromatismo che negli spessi blocchi sonori apre continue fessure proprio come succede sulla scena con le nere occhiaie delle pareti e del pavimento; ti sospinge su vibranti folate melodiche fin sul ciglio di blocchi sonori buttandotici di colpo dentro insieme a macigni d’accordi, dai quali ti fa uscire all’improvviso, in rarefazioni sonore che non rilasciano ma al contrario serrano di continuo la tensione. Trovo in nulla pesante, quest’orchestra: densa, piuttosto, ma una densità ovunque d’eccezionale plasticità, sia che il magma orchestrale coli tutto intero e a tutta forza, sia che gli archi creino col loro registro acuto rarefatti paesaggi sonori, quasi sfondi austeri, composti ma anche vibratili di tensione, di certi affreschi di Piero. Orchestra, insomma, che sa sempre allacciare la grandiosità dell’impianto alla minuzia estrema del dettaglio, senza che scadano quella nell’indistinta grevità e questa nel cincischio.
E il lavoro sul minimo dettaglio entro una grandiosa cornice è anche quanto contraddistingue la regia: gestualità minuta, tutta piccoli incisi che però si legano tra loro, ciascuno riprendendo o alludendo a un altro, costruendo tassello dopo tassello una narrazione non di fatti ma di stati d’animo le cui radici e le cui motivazioni affondano in un passato del quale poco a poco percepiamo i contorni: qualcosa insomma di estremamente difficile a farsi nel teatro musicale (dove si tende troppo spesso a preferire invece la semplificazione del Gran Gesto ad accompagnare la grande frase vocale), reso possibile solo dall’avere a disposizione un cast di cantanti-attori tra i migliori – se non i migliori in assoluto – che nell’ultimo ventennio si siano dati convegno per quest’opera. Iréne Theorin non possiede la strapotenza vocale di certe Elektre vicine o lontane, ma non ne ha alcun bisogno: ferma, ampia e sicura in ogni passaggio verso l’alto o verso il basso, la linea pulsa di continuo in dinamiche che illuminano ogni frase, in accenti che danno senso a ogni parola, in una moltitudine di colori ora gelidi ora violenti che il gesto accompagna e sottolinea ampliandone di continuo l’effetto. Il viso coperto di bianco, la figura rigida, ne fanno una sorta di marionetta spezzata che ci compare davanti salendo dal sottosuolo, come da un sepolcro imbiancato, sedendovisi sul bordo sempre avvinghiata al cappottone nero tutto screziato che fu del padre e ora pare l’unica cosa capace di tenerla in vita. Cappotto che ciascun personaggio prende di volta in volta nelle mani, ora a cercarne conforto (Chrysothemis), ora a chiederne pace (Klitämnestra), ora con terrorizzata reverenza (Orest), ma alla fine torna sempre come mostruoso giogo a gravare sul corpo d’Elektra imprigionandone la mente.
Waltraud Meier debutta Klitämnestra: e fin da subito questo personaggio pare rivoltato come un calzino. Compare elegantissima, bellissima, sinuosissima nella sontuosa pelliccia di piume rosse sopra un aderente vestito lungo color cremisi tempestato di strass multicolori scintillanti al pari di quelli che decorano il turbante che ne copre il viso – truccato, ma non troppo vistosamente – celato in parte dietro grandi occhiali neri. Una Gloria Swanson nel mezzo del suo Viale del tramonto ma ancora nel pieno d’una femminilità che la rende lontana anni luce dalla digrignante megera sfatta e artritica di certa tradizione: e che si muove di conseguenza, con falcate ampie e morbide da mannequin, con le mani che disegnano eleganti arabeschi nell’aria e che si liberano prima degli occhiali, a far splendere la radiosità d’un viso perfetto; poi il turbante, facendo così fluire una cascata conturbante di lisci capelli ramati: e quando si siede a conversare con la figlia in toni sommessi, ansiosi ma nel fondo complici, le mani intrecciate e gli occhi fissi negli occhi mentre rievocano Orest e ti fanno veramente “vedere” tra loro due la figura del figlio/fratello (complice un’orchestra favolosa nel far emergere gli oboi che con strazio dolcissimo ne intonano il motivo), il momento è memorabile e scrive pagina del tutto nuova nell’interpretazione dell’opera. E canta, canta sempre, la grande Waltraud. Anche quando – complice la dizione favolosa – pare declami, in realtà canta con quella sua voce bellissima che sa variare di continuo la tavolozza accentale lavorando di bulino sulla parola (ma senza che il bulino mai si veda, te ne accorgi solo a cose fatte: qui sta davvero l’artista di teatro) dandole colori, chiaroscuri, inflessioni sempre mobilissimi. Tasselli d’un ritratto di portentosa finezza psicologica, nel quale l’angoscia tenta di corrodere una debordante sensualità ma viene rabbiosamente contrastata da una personalità nient’affatto doma: scattante, invece, orgogliosa; e che proprio perché tale, vorrebbe esser complice della figlia, ritrovare i legami spezzati per provarsi a riannodarli.
La scena madre-figlia, condotta con tanta originalità, si conclude in modo ancor più originale: la classica risataccia alla notizia della morte di Orest, Lehnhoff gliela risparmia, dandola alle due ancelle mentre lei lancia alla figlia uno sguardo dolente, quasi di estremo, malinconico rammarico sottolineato dall’orchestra con un’ultima montata di melodiosa sensualità. Ma il maggior colpo di genio riservato alla figura di Klitämnestra è quello che conclude l’opera. La porta di fondo, che fino allora s’era aperta girando sui cardini, ora invece si solleva, e dietro al grande cubo di marmo color ghiaccio se ne dischiude un altro, tutto a riquadri bianchissimi sui quali spiccano schizzi rossastri: e al centro pende dondolando il corpo di Klitämnestra, attaccata coi piedi a un gancio sul soffitto, i lunghi capelli fluttuanti quasi a toccar terra. Elektra mette il cappotto del padre sulle spalle di un impietrito Orest, quasi a passare delle consegne: e da ogni anfratto del grande cubo, coperte di piume nere, escono le Erinni mentre la scena s’oscura e sul marmo passano ombre sempre più nere.
Eva-Maria Westbroek è una Chrysothemis dalla nevrosi quasi isterica, di fortissimo impatto drammatico: a plasmare un’interpretazione che finalmente lascia perdere l’imitazione di Leonie Rysanek (non foss’altro perché canta molto meglio); e René Pape riesce perfetto a conferire a Orest quanto davvero conta, ovvero una voce di timbro bellissimo al servizio d’una linea di classica severità.
di elvio giudici