Rossini – Guglielmo Tell

Rossini - Guglielmo Tell

interpreti G. Finley, J. Osborn, M. Byström, M. Rose, C. Cigni, C. Bosi, E. Xanthoudakis, M. N. Lemieux
direttore Antonio Pappano
orchestra Accademia di Santa Cecilia
3 cd Emi 0288262

All’estero – Londra ai Proms, Parigi agli Champs-Elysées, Vienna all’An der Wien – hanno sempre mantenuto la pratica dell’opera in forma di concerto, da noi desueta dopo l’epoca delle stagioni Rai. Utilissima, invece. L’handicap dell’assenza scenica compensato dal poter ascoltare partiture di nicchia o troppo costose da mettere in scena: e col vantaggio di prestarsi a tournée di prestigio. Mentre diversi teatri italiani hanno dovuto cancellare chi una chi più produzioni per ragioni di bilancio, l’Accademia di Santa Cecilia di opere ne fa ascoltare ben due per stagione: aperta l’anno scorso dal Guglielmo Tell che a luglio è stato portato ai Proms di Londra. Ci perde, il Tell, senza la scena? Secondo me, non più di tanto. Non ne ricordo nessuno dove il coro non fosse immobile a fare il coro: coprotagonista di un’opera dove quasi nulla succede e neppure è possibile fingere che succeda, con la sua vicenda circoscritta all’utopia civica entro un senso panico della natura. È tuttavia capolavoro sommo, la sua sporadica comparsa dipendendo solo da ragioni di difficoltà estrema e dispendiosità cospicua: di molto attutita, quest’ultima, appunto dalla sala da concerto.
Opera bifronte se non tricefala: terminale del percorso Gluck-Cherubini-Spontini; anticipo, nonostante l’autore non l’amasse per niente, del Grand-Opéra sia romantico che verdiano; ma programmaticamente agli antipodi di entrambe. È l’organizzazione formale – che impiega la grammatica passata ma l’organizza in regole sintattiche del tutto nuove – a costituire non un mezzo drammaturgico bensì il suo fine precipuo: la forma in quanto tale, cioè, diventa teatro, sicché del teatro può fisicamente fare a meno. Purché ci sia un’esecuzione così, però: con un direttore capace di far funzionare tale teatralità virtuale, che avrebbe potuto quindi concedersi un’integrale o quantomeno il sublime terzetto finale, dato che Jemmy ed Edwige sono molto brave e lo spazio nel terzo cd ci sarebbe stato.
Delle due opzioni interpretative, neoclassica e preromantica, Pappano sceglie con decisione quest’ultima, d’altronde la più frequentata: agogica contrastatissima al pari della dinamica, colori vividi, serratezza ritmica, abbandono al flusso melodico reso talora piena alluvionale. Ma sempre, sempre scansando la retorica: curatissimi gli innumerevoli gioielli in fatto di strumentazione, raffinatezze armoniche, contrappunto, virtuosismo strumentale pronubo d’analoghe arditezze vocali. Dal poema sinfonico in miniatura della celeberrima Sinfonia fino al sublime articolarsi dei molti piani sonori – ciascuno diversamente strumentato – del concertato finale, che di quarte in quarte srotola tonalità maggiori e relative minori avanzando verso il trionfante do maggiore. Tanti lo risolvono in marea sonora la più bella, forte ma anche magmatica possibile: non Pappano. Che la sua caratteristica immutabilità motivica fa invece formicolare come se di motivi ne pullulassero un’infinità, laddove sono le nervature strutturali ad essere nitidissimamente scolpite e tutte in movimento, a spingerti avanti, in alto, travolgente traduzione sonora (e a basso tasso di piatti, altra differenza decisiva coi tanti paghi solo dell’effetto epidermico) d’una forza naturale cui non si può – o forse sarebbe bello non potere – sottrarsi. L’orchestra dà il suo massimo per il proprio direttore musicale, al pari del formidabile coro di Ciro Visco.
Gerald Finley è protagonista di voce un po’ mingherlina ma chiara, morbida, dizione chiarissima, accento magnifico. La micidiale parte di Arnold viene risolta da John Osborn molto più col chiaroscuro delle sfumature elegiache che con forza barricadiera: gli acuti ci sono comunque tutti, e squillano a dovere, il che è raro; ma c’è anche un personaggio e questo è ancora più raro. Malyn Byström è molto più bella che brava, l’emissione abbisognando di tutt’altra fermezza e rotondità, per non dire della dizione burgunda. Molto buona (cosa rara ma decisiva) la folta schiera dei ruoli minori: con menzione speciale per l’autorevole Matthew Rose, lo squillante e luminosissimo Pescatore di Celso Albelo, il protervo ma sempre nobile Gessler di Carlo Cigni, il Rodolphe di Carlo Bosi, che ancora una volta si conferma il migliore esponente – e di gran lunga – di quella schiera di caratteristi un tempo gloriosa e oggi assai sguarnita.

di elvio giudici


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306 Novembre 2024
Classic Voice