Verdi – Macbeth

Verdi - Macbeth

interpreti: D. Solari, T. Serjan, R. Zanellato, A. Poli 
direttore: Riccardo Muti
regia: Peter Stein
Teatro dell'Opera
ROMA

ROMA – Non è un privilegio aver raggiunto la soglia dei 75 ma consente di ricordare, pallidissimo zuccherino, lo stupore che fece tra i Quaranta e i Cinquanta dello scorso secolo la scoperta del Macbeth, fin allora reputato un troppo precoce contatto di Verdi con Shakespeare quando è ormai chiaro che ivi già s’annidava la decisiva presa di coscienza del Bussetano. E oggi che l’opera è finalmente assurta al rango che le compete, vederne riproporre l’effigie nella sontuosa direzione orchestrale di Riccardo Muti rallegra assai. Colpisce, in questa inaugurazione della stagione romana, la forza con cui la bacchetta ha affermato la supremazia del fattore orchestrale sul mero dato vocale; non significa banalmente che l’orchestra copra le voci, ma che il direttore è cosciente di quanto l’apparato strumentale condizioni in quest’opera il canto e ne costituisca il vettore alieno. Ne sortisce un Macbeth di scabra violenza, le cui fiammate di enfatizzazione, lontane dal semplice effetto fonico,  sono tese piuttosto a far da contrasto al  ripiegarsi del discorso vocale in quei momenti di cupa introiezione che l’opera pretende e che la dicono lontanissima da quanto finora la musica verdiana aveva enunciato. L’arma usata da Muti è quella di una perspicua variegatezza della dinamica, un esempio fra tutti verificandosene nella risoluzione del Finale Primo: allorché al sommesso effondersi di «O gran Dio» subentra, qual pugno nello stomaco, la convulsa stretta di «L’ira tua». E grande prova di intelligenza musicale è anche quella di addentrarsi nel cuore della zona di cosiddetta trivialità dell’opera con la consapevolezza  della sua importanza di nesso portante della drammaturgia; il giovane Verdi aveva già afferrato, dalla primitiva stesura più cose di Shakespeare di quanto non fosse lecito aspettarsi (e, sia detto fra noi, più di quante ne avrebbe afferrate molti anni dopo in Otello, pronuba la cattiva influenza di mastro Boito). (…)

In perfetta linea con l’assunto di Muti è parsa la regia di Peter Stein: cupa, ridotta all’essenzialità, bella nei suoi tableaux vivants (splendida l’evocazione à la Füssli delle tre streghe che predicono il futuro e d’effetto le torce che accompagnano il rito funebre di Duncano); e se una riserva è concesso fare al progetto teatrale, forse un po’ anonimo per tanta firma, è quello della pochezza d’invenzioni a scuotere il già visto, anche se tutto risuonava di gusto e sensibilità e non male appariva l’idea di eleggere Lady a strumento di compianto sul cadavere di Duncano. In linea con Muti era poi, e con grande autorevolezza, la Lady di Tatiana Serjan, unica del team vocale a spiccare vistosamente per personalità e strumento: voce d’acciaio, pur incline a piegarsi e ammorbidirsi per effetto di ottima manovra sui fiati, adeguata estensione in alto e in basso, charme scenico da non trascurare. (…)
Aldo Nicastro
 
(la versione completa compare sul numero 152 di Classic Voice – gennaio 2012)

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