interpreti O. Anastassov, V. Vaneev, V. Matorin, I. Storey, P. Bronder, E. Akimov direttore Gianandrea Noseda orchestra teatro Regio di Torino regia Andrei Konchalovski regia video Francesca Nesler formato 16:9 sottotitoli Ing., Fr., Ted., Sp. dvd Opus Arte 1053D
Diverse sono state le vie lungo le quali, sul finire dell’Ottocento, l’antico melodramma a pezzi chiusi è avanzato verso il moderno dramma musicale. Quella tracciata nell’Est è risultata quanto mai ostica per la sensibilità del resto d’Europa: come dimostra la tormentata storia editoriale e per conseguenza esecutiva di Boris Godunov, ovvero del titolo che più d’ogni altro ne esalta la grandezza. Consegnata definitivamente alla paleontologia musicale – così almeno si spera – la favoletta del Musorgskij geniale dilettante e bisognoso quindi di orchestratori migliori di lui, il Boris Godunov abbiamo ormai imparato ad apprezzarlo non nonostante, ma proprio per la sua estraneità alle sonorità tardoromantiche: esattamente come i pianistici Quadri, dopo Richter, consegnano senza rimedio alla soffitta i “miglioramenti” di Horowitz.
La molto maggiore conoscenza dell’universo musorgskiano, però, se ha chiuso una vertenza ne ha subito aperta un’altra sul fronte drammaturgico. Giacché di Boris, Musorgskij ne ha scritti non uno ma due. E dunque: meglio la seconda stesura del 1872, quella in virtù della quale – sia pure nel travestimento occidentalizzante di Rimskij – l’opera s’è imposta? Oppure la sua prima, il cosiddetto Ur-Boris del 1869: sette quadri soltanto (niente atto polacco né scena finale nella foresta di Kromy); più ampia la parte di Pimen, da cui udiamo in dettaglio il racconto dell’uccisione dello zarevich, affermandosi così perentoriamente la colpa di Boris (molto più sfumata e dubbia, nella seconda stesura); assenza delle folcloristiche canzoni dell’ostessa, della nutrice e di Fiodor; diverso andamento del monologo di Boris e del confronto con l’infido Shuisky. L’uso, nel caso si opti per questa versione, è d’eseguirne le due ore circa senza intervallo: enfatizzando così il serrarsi compattissimo della narrazione sui due poli antitetici di Boris e del popolo, ovvero antitesi tra chi esercita e chi subisce il potere, con in mezzo la gigantesca figura del monaco amanuense Pimen, custode e testimone narrante del fluire della Storia con la sua meccanica lotta per il potere che in pratica ne esaurisce il senso, in un’atmosfera complessiva dominata da duro, roccioso, cupo pessimismo.
Questione irrisolvibile, giacché tra due ottiche drammaturgiche tanto diverse eppure straordinariamente suggestive entrambe, la scelta risponde solo a personali preferenze di linguaggio teatrale. Sarebbe meglio, tuttavia, seguire in entrambi i casi Musorgskij anziché gli estri creativi dei suoi interpreti: rispettabili fin che si vuole, ma – abbiano pazienza – di spalle meno robuste dell’autore, e autore per giunta simile. Sicché Noseda e Konchalovsky scelgono l’Ur-Boris, ma dalla seconda versione traggono (necessitandosi così l’introduzione d’un intervallo) la scena di Kromy. Scena che Musorgskij ha piazzato alla fine non per caso ma per precisa – e geniale – intuizione drammaturgica: mostrare, dopo la morte di Boris, un altro e di lui peggiore protagonista dell’eterna scalata al potere, commentata dal pianto dell’Innocente sulle sorti del popolo, amare ma purtroppo anche meritate per via della sua non meno eterna immobilità. Invece, tale scena viene qui piazzata prima della morte di Boris. L’intento, probabilmente, è mostrare un popolo che inneggia al falso Dimitri come reazione a quanto accaduto nella scena subito precedente di San Basilio, quando Boris è stato esplicitamente accusato di regicidio: ma così facendo, il popolo ci viene presentato come energico e volitivo anziché quell’inerte voltagabbana che invece – con dolore, ma anche con impietosa, verdiana lucidità – Musorgskij presenta nel contesto generale di entrambe le due versioni dell’opera. Detto questo, la direzione di Noseda la trovo magnifica, magnificamente realizzata da un’orchestra in forma smagliante e da un coro che forse mai è apparso così bravo. Un’unica, densa colata scura entro cui la scansione narrativa riesce di robusta tensione: frutto d’una capillare, calibratissima concertazione che viene assai bene a capo d’una scrittura così insidiosamente priva di marcati contrasti dinamici.
Spettacolo di Konchalovsky all’insegna dell’eterno equivoco che “rispetto per l’autore” nonché “bando al naturalismo da cartolina” altro modo non abbiano d’essere perseguiti all’infuori del nudo minimalismo. Scena vuota costituita da tre pedane sollevabili e piegabili a libro; molto realismo nella recitazione; sapiente impiego dello spazio scenico nell’articolare tra loro le masse. Se l’ idea d’un Boris giovane e prestante, uscito dal popolo e dunque dalla marcata impronta popolare, è senz’altro suggestiva (anche perché funge da pendant a un popolo litigioso, petulante, suggestionabile con tragica facilità), molto meno lo è il battere tanto su questo punto: come quando lo si fa affannare a mettersi gli stivali proprio in punto di morte. Orlin Anastassov evita ogni ostentazione vocale, piegando il bel timbro a notevoli chiaroscuri accentali, coi quali costruisce un personaggio il cui giovanile vigore viene progressivamente fiaccato da una cupa, tormentosa introversione, lungo un percorso psicodinamico di grande logica teatrale e forte impatto espressivo. Vladimir Vaneev è sostituto dell’ultima ora di Sergei Aleksashkin ma è riuscito ugualmente ad essere un magnifico Pimen, così come la tortuosa, livida protervia di Grigory emerge con magnifico rilievo dal canto incisivo e squillante di Ian Storey. Ottimo lo Sujskij di Peter Bronder, e più che adeguati i ruoli di fianco.
di Elvio Giudici