interpreti S. Pirgu, G. Kühmeier, A. Esposito, A. Shagimuratova, G. Groissböck, P. Bronder, R. Sadnik
direttore Roland Böer
orchestra teatro alla Scala
regia William Kentridge
regia video Patrizia Carmine
formato 16:9
sottotitoli It., Ing., Fr., Ted., Sp.
dvd Opus Arte 1066
Dopo il paludato, concettoso, marmorizzato e insomma noiosissimo Flauto magico inaugurale della stagione 1995-96 messo in scena da Roberto De Simone e diretto da Riccardo Muti, l’opera tornò alla Scala nel 2011 in un allestimento nato sei anni prima alla Monnaie di Bruxelles: firmato dal sudafricano William Kentridge. Artista a tutto campo, come si suol dire: scultore, pittore, regista cinematografico ma anche di teatro, tanto di parola quanto musicale. Ai miei lontani tempi liceali, si chiamava secchione quel saputello tutto scienza e niente estro: ignoro se lo chiamino ancora così, ma al secchione mi fa pensare questa regia. Oddìo, regia. Cos’è una regia? Scenografia ingegnosa tecnicamente, talora bella figurativamente ma così sempre uguale a se stessa da farti venir voglia d’alzarti e dire “grazie, abbiamo capito, e poi?”? No, questa, stringi stringi, non è regia bensì decorazione. Kentridge è sicuramente più moderno di tanti altri scenografi improvvisatisi registi, ma la fresc’anima popolare ricorda che se non è zuppa è pan bagnato.
Suggestiva, certo, l’idea di una scenografia che davanti a noi nasce per così dire sul momento, tracciata da una matita invisibile. Carina pure l’idea portante che v’è sottesa: la macchina fotografica (sviluppare in positivo oppure in negativo la pellicola della quale, fa sì che il bianco diventi nero e viceversa) quale metafora delle molte antitesi – Buio e Luce, Regina e Sarastro, Male e Bene, Oscurantismo e Ragione illuminista – che s’affrontano nel racconto. E dunque una scena fissa (per inciso: la pessima acustica scaligera, grazie a scena di questo tipo, migliora al mille per mille) organizzata in prospettive e vedute barocche sopra le quali si proiettano linee bianche in perpetuo movimento, a tracciare simboli massonici, oggetti scientifici, uccelli in volo, figure geometriche – parabole ed ellissi – che definiscono traiettorie di corpi celesti. Tutto bello e persino pertinente: ma poi? Poi niente: camminano da destra a sinistra, stanno, si girano, tornano indietro. In scena c’è un solo artista autonomamente grande pure come attore, ed è Alex Esposito nei panni di Papageno: lui, oltre a cantare strepitosamente bene – e in perfetto tedesco – fa anche qualche gesto, assume qualche espressione, tenta quasi pateticamente di fare qualcosa, ma rischia persino di parere troppo caricato a fronte della catatonica immobilità che la non-regia ispira a tutti gli altri.
A ciò che si vede (ripreso come al solito malissimo dall’eterna Patrizia Carmine, alla cui totale insensibilità musicale e teatrale – già ampiamente comprovata – la Rai s’ostina ad affidare le proprie riprese), è affine quanto si sente. Non basta ispirarsi ai moderni criteri esecutivi del barocco – quelli dei René Jacobs o William Christie – per essere automaticamente bravi: l’orchestra di Roland Baër è pesantuccia, le articolazioni interne appiccicose, i colori ispirati al grigio perenne della scena, priva di aria in cui far respirare le melodie, artritica nel racconto. Noiosa. Nel cast, s’arriva alla vetta costituita da Esposito partendo dal Monostato chioccio di Peter Bronder e passando per la Regina molto percussiva e niente espressiva di Albina Shagimuratova, per la Pamina di bell’accento ma stridula e fissa in tutti gli acuti di Gena Kühmeier, e per il Sarastro corretto ma fioco di Günther Groissböck: mentre il Tamino di Saimir Pirgu fa ascoltare bell’accento e buona linea, ma anche diverse sfocature nel raggiungere le alte quote. Però il fondo dell’abisso è il ritorno all’ormai obsoleta tradizione dei Tre Ragazzi cantati da sopranini anziché voci bianche: un mozarticidio.
di elvio giudici