interpreti I. D’Arcangelo, D. Damrau, P. Spagnoli, M. Orsatti Talamanca, M. Bacelli regia Giorgio Strehler direttore Gérard Korsten orchestra e coro del Teatro alla Scala 16:9 sottotitoli: ingl., ted., fr., it., spagn., cor., giap. 2 dvd Arthaus- Musik 101589
Mentre l’anno mozartiano 2006 riportava alla Scala le Nozze di Strehler, qui giunte per la prima volta nel 1981 dirette da Muti, al Covent Garden di Londra debuttava il nuovo spettacolo di David McVicar e in estate, a Salisburgo, Claus Guth avrebbe dato il via, con una discussa lettura, a una nuova trilogia dapontiana. Interpretazioni, da allora più volte riproposte, tutte disponibili in dvd. Tre immagini diverse della stessa opera. Le Nozze di Strehler, create a Versailles nel 1973, messe in scena anche all’Opéra, qui riprese in video già nel 1980, allestimento di riferimento alla Scala, sono ormai un classico del teatro mozartiano, insieme a quelle di Jean-Pierre Ponnelle, la cui regia, in teatro e in film, è tra gli eventi degli stessi anni. In modi diversi, i due registi davano un volto più umano e complesso alle Nozze, sottraendole definitivamente al cliché del vacuo gioco galante. Non a caso Strehler, che conosceva perfettamente Goldoni e Marivaux, usava affermare che, dietro le quinte, c’era il mondo delle “relazioni pericolose” di Laclos. Da qui la schiettezza e la verità nel ritrarre i personaggi nei loro impulsi affettivi ed erotici, e la riscoperta della sensualità, che non solo dà un sapore inedito a Cherubino, ma restituisce prorompente femminilità a Susanna e alla Contessa. Tratti nuovi di recitazione che coinvolgono anche gli altri protagonisti, a cominciare dalla protervia aristocratica del Conte, e che si avvalgono di invenzioni scenografiche che hanno fatto epoca: interni semplici e geometrici, con prospettive e colori, di Frigerio-Squarciapino, culminanti in uno squarcio di Fragonard nel quarto atto; minuziosa ricostruzione ambientale di Ponnelle. Certo, l’insieme acquista un senso alquanto diverso quando a sostenere il gioco sono anche grandi personalità: personalmente, quindi, tolta l’ammirazione per D’Arcangelo, Damrau e Spagnoli, preferisco l’edizione strehleriana con van Dam, Popp, von Stade, Janowitz, o il live parigino del 2010, più spigliato, e meglio diretto da Philip Jordan rispetto al compassato Korsten; e rivedo spesso il film di Ponnelle, di cui è impossibile fare a meno, data la presenza della più grande Susanna di tutti i tempi, Mirella Freni, e del Conte di Fischer-Dieskau. Senza dimenticare l’aplomb di Böhm: anche se l’impostazione del direttore austriaco, per mio conto, è nettamente superata dai più grandi direttori italiani, da Gui a Glyndebourne nel 1955 (Bruscantini, Sciutti e Jurinac meritano l’ascolto) a Giulini per la Emi (con una compagnia – Schwarzkopf, Taddei, Wächter – anche in questo caso emblema di uno stile magistrale di canto); da Claudio Abbado, che già nelle recite scaligere del 1974 aveva provveduto a dare un’impronta elettrizzante alle Nozze (cast stupendo, con Van Dam, Freni come Contessa, Berganza e Mazzuccato: da confrontare con il live salisburghese dello stesso anno, diretto da Karajan), al Riccardo Muti fiorentino del 1979 e scaligero degli anni ’80-’90, e di nuovo all’Abbado viennese del 1991 (con la regia modernissima di Jonathan Miller) e ferrarese di anni più recenti. Se i dischi riservano altre piacevoli sorprese – cito solo due opposti: Barenboim nel 1990, con Cuberli e Bartoli, e René Jacobs, secco e sottile, nel 2003, con il Concerto Köln e Simon Keenlyside – oggi la scena è dominata dagli exploit di Pappano/McVicar a Londra e Harnoncourt/Guth a Salisburgo. Se Strehler e Ponnelle si fermavano sull’orlo dell’abisso, McVicar, e soprattutto Guth, non temono di procedere oltre, verso il lato oscuro. Il primo è più sul filo della tradizione reinventata: siamo ancora in un castello, anche se ai primi dell’Ottocento, e la narrazione ha una naturalezza e un ritmo eccezionali, con un rilievo insolito dato al brulicante mondo dei servitori, alla caratterizzazione dei personaggi, alla denuncia scoperta dei conflitti. Ciò che prima si suggeriva, viene ora detto apertamente (anche in magnifici recitativi), nel tentativo di ricostituire l’equilibrio perduto, e si stagliano diverse prove maiuscole (superbo Gerald Finley; toccante la Röschmann, arguta la Persson, trascinante Schrott). Con Guth e i suoi notevoli interpreti (D’Arcangelo, Netrebko, Röschmann, Skovus, Schäfer), siamo proprio in un mondo a parte: la vicenda si svolge, come al solito, in un interno, tra scale ascendenti, ai primi del Novecento, e più che il contrasto sociale o i turbamenti amorosi interessa al geniale regista approfondire il rapporto di coppia (sono in crisi anche Figaro e Susanna), gli effetti del matrimonio (Mozart si tinge di Strindberg, Ibsen, Bergman), la traccia non lineare sulla cangiante natura umana dell’eros (che infatti compare, nella persona di un ottimo mimo, Cherubim, a pesare spesso sulle spalle dei cantanti). Impossibile definire in breve come ogni scena sia ripensata, come l’iniziazione sessuale (ora è questo che avviene durante l’aria di Susanna del II atto) si mescoli all’attrazione erotica, scompaginando le coppie, e come ogni tempo musicale sia calibrato sul nuovo metro. Diventa difficile, dopo Guth, ritornare a guardare alle Nozze con gli occhi disincantati di prima. Infatti, Michieletto a Venezia (2011) non ci ha pensato un istante a concentrare, tragicamente e crudamente, tutta l’azione sui tormenti interiori della Contessa. Il finale non può essere consolatorio: il mal d’amore condurrà dritto al suicidio e da lì l’opera comincia, svolgendosi come in un flash-back, a rappresentare il disperato bisogno di essere amati.
Giovanni Chiodi