Verdi – Attila

Verdi - Attila

interpreti I. Abdrazakov, N. Alaimo, T. Serjan, G. Gipali, A. Ceron, L. Dall’Amico 
direttore Riccardo Muti
regia Pierluigi Pizzi 
teatro dell’Opera
ROMA

ROMA – Il Maestro ha fatto una birichinata. Giunto al quarto incontro registico con Attila, Pizzi decide di promuoverlo a ispettore dei beni culturali, facendogli spegnere le fiamme che la sua soldatesca aveva appiccato nel prologo alla biblioteca di Aquileia. Trattasi di spiritosa invenzione nel solco del Nibelungenlied e di Zacharias Werner, per i quali un khan delle steppe asiatiche, uso ad esprimersi in idioma altaico-turchesco, diveniva un puro germano adoratore di Wotan/Odino (“Wodano” nel libretto di Solera). Di questo passo il Flagello di Dio lo vedremo, fatto Agnello del medesimo, esalare l’anima da martire in seno a papa Leone. E i “terroristi” Ezio, Foresto e Odabella? Tutti all’inferno o alle Fosse Ardeatine. Julian Budden aveva già scritto nel 1973: “Ezio incarna tutti gli aspetti più squallidi delle guerre di resistenza”; vediamo di non eccedere in revisionismo. 

Meglio che sulla critica storica, Pizzi si destreggia con l’ambivalenza fra emozioni teatrali e formalismo di un vocabolario geometrico da far invidia al neoclassicismo giacobino di architetti come Ledoux e Boullée. Mausolei di una civiltà defunta, “architectures ensevelies” abitate da spettri canori fra muraglie scorrevoli, volte a cassettoni, cipressi rinsecchiti e pergamene semicombuste, le sue scene imitano il granito, il basalto, il marmo di Carrara. Masse di corpi vi stanno ammucchiate come entro un carnaio, in ammanti ora candidi e ora in toni di grigio fra l’antracite e la pece: sono i cori di popolo, monaci, soldati. Pochi emblemi a scala colossale (una Croce, un cavallo ronconiano); macchie scarlatte per le vesti di Attila e Odabella. Visioni di luttuosa eleganza op-art con una sola caduta di stile: non si comprende perché, prima di affondarla in corpo al donatore, Odabella debba aggirarsi per tre atti reggendo in mano la spada sguainata di Attila. Fra tanti accessori di cuoio visti in giro non c’era un fodero anche per lei?
 Cast vocale da sogno, inclusi due comprimari di lusso come Antonello Ceron (Uldino) e Luca Dall’Amico (Leone). L’Attila di Abdrazakov ha bel colore, musicalità e nobile carisma scenico, ma l’Ezio di Nicola Alaimo lo sovrasta per potenza e competenza stilistica, così nei recitativi come nel memorabile duetto del prologo, e perfino nel cantabile. “Dagli immortali vertici” e la cabaletta “È gettata la mia sorte” scatenavano sediziose richieste di bis manco si fosse all’Arena. Molto affaticata nel finale, l’avvenente Odabella di Tatiana Serjan teneva comunque testa ai due mattatori e al muro di suono elevato da orchestra e coro; non così il soave Foresto di Giuseppe Gipali, per lunghi tratti messo all’angolo in un ruolo tutto giocato in zona di passaggio fra messe di voce e canto a fior di labbra. Si sa: Muti non fa sconti ai cantanti sul piano delle opportunità respiratorie, impartisce loro attacchi a rigore di tempo e nemmeno deflette dall’Urtext dell’edizione critica: né razzi finali nei concertati, né abbellimenti nella ripetizione delle cabalette. Ne guadagnano le scene di massa, mai sbracate, e le voci sinfoniche della natura; da tempo non udivamo l’orchestra romana suonare con tanta pulizia in ogni sua sezione. 
Carlo Vitali
 

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