Cilea – Adriana Lecouvreur

Cilea - Adriana Lecouvreur

interpreti A. Gheorghiu, J. Kaufmann, O. Borodina, A. Corbelli
direttore Mark Elder
orchestra del Covent Garden
regia David McVicar
regia video François Roussillon
formato 16:9
sottotitoli Ing., Fr., Ted., Sp.
2 dvd Decca 0743459

Ecco uno spettacolo che sollecita diverse considerazioni in merito a come si possa – e dunque, per li rami, si debba – mettere in scena il melodramma italiano: il presente titolo indurrebbe a riferirsi a quello primo novecentesco, ma il discorso muta ben poco anche per il resto. In linea di massima, negli ultimi anni due i fronti l’un contro l’altro armati. Da una parte “l’eleganza” più o meno stilizzata ma comunque sempre figurativa, dunque a tasso minimo di regia modernamente intesa: questa in sostanza esaurendosi nell’impianto scenico e nei costumi, il movimento ridotto a un mero incedere, pur esso il più elegante possibile in nome di quella “nobiltà”che da noi – va a sapere perché – s’è ritenuto essere connaturata al melodramma. Dall’altra,  una destrutturazione drammaturgica con successivo darsi di due casi: ristrutturazione in contesti diversi che, nelle intenzioni,  dovrebbero chiarire meglio le situazioni e i personaggi avvicinandone le problematiche alle nostre contemporanee; oppure, il permanere di tale destrutturazione in una serie di quiz di soluzione non facile quantunque sempre intrigante, per lo meno all’appassionato di teatro in quanto tale.
Oggi, in paesi teatralmente più avanzati del nostro è in pieno svolgimento una sorta di superamento di entrambe tali posizioni, che recuperino il meglio tanto dell’una quanto dell’altra: all’insegna d’un teatro che in linea di massima va sempre più accettando la struttura drammaturgica di base (intesa come storia), però la svolge attraverso una minuta, spesso minutissima analisi gestuale. Che la svincola completamente dagli antichi stereotipi codificati dal culto divistico della primadonna “atteggiata” tanto nelle pose sceniche sistematicamente sopra le righe (perché una Diva deve sempre sottolineare il proprio status), quanto – soprattutto – nell’accento che logicamente ne deriva: anch’esso sopra le righe qualunque cosa si vada dicendo, sicché anche la più innocua frase di raccordo finisce col caricarsi di chissà mai quale risvolto tragico che la rende invece ridicolissima.
Fino a qualche tempo fa, ero convinto che alcune semplificazioni all’insegna dell’idiomaticità fossero banali e superate sciocchezze: ma forse debbo ricredermi, almeno oggi. E dunque, credo sia vero che gli italiani – forti del loro illustrissimo passato in materia di tele dipinte – decorino meglio degli altri. Che i francesi – forti delle loro tragedie in alessandrini – pontifichino meglio di chiunque altro. Che i tedeschi, nessuno li batta per analizzare, sminuzzare, indagare, sviscerare, tanto presi dal destrutturare da dimenticarsi spesso di ricomporre i pezzi del puzzle lasciandoli allineati in bella però un filo sterile mostra. Ma gli anglosassoni – con la loro ferrea tradizione del romanzo e del teatro recitato – come sanno raccontare loro, nessuno. Naturalmente, c’è chi si limita a raccontare con solido mestiere, che però la bravura sempre altissima di quanti agiscono sulla scena (sia essa di prosa o lirica) rende comunque di forte consistenza teatrale. E naturalmente, ci sono i registi inglesi molto bravi, in numero rilevante: da Jonathan Miller a Peter Hall, da David Pountney a David Freeman, da Nicholas Hytner a Keith Warner. Ci sono i fuoriclasse come Graham Vick, David Alden, Deborah Warner. E poi ci sono i geni, più rari com’è ovvio: tra questi, dopo il glorioso capostipite Peter Brook si sono a mio avviso ritagliati posti di riguardo Peter Sellars, Robert Carsen (canadese ma cresciuto in area anglosassone), Richard Jones, David McVicar. Il quale McVicar è forse non il più geniale ma probabilmente il più estroso, eclettico e, in quanto il più curioso, il più imprevedibile di tutti.
Adriana Lecouvreur mancava a Londra dalla bellezza di un secolo. È opera molto scabrosa nel suo essere irta di frasi reboanti affidate però a musica sottile, quasi evanescente ma capace d’imprimersi nella memoria, così da imporre il ricordo di parole su cui invece sarebbe meglio stendere un velo d’oblio. Opera che mescola teatro e salotto nobiliare; un bellimbusto di soldataccio aspirante a un improbabilissimo trono (di Curlandia, figuriamoci) e una grande attrice, che però non vediamo al lavoro bensì sempre e solo nel privato, e che quando declama Fedra pensa ai casi suoi privatissimi, non certo per impartire una lezioncina di retorica a quattro sciamannati di nobili; un vecchietto bonario e melanconico, attorniato da fauna teatrale schiamazzante e saltellante; amanti che si rimpiattano, riappaiono, non sono riconosciute, però declamano versi da tragedia classica formato bigino per poi scovare improbabili quanto micidiali veleni, che uccidono lentamente consentendo intriganti deliqui canori.
Opera, insomma, bella da dirigere perché è molto ben fatta, e splendida da cantare: ma un disastro da mettere in scena ove per caso s’intenda amalgamare tante componenti evitando che la maionese impazzisca com’è avvenuto praticamente sempre. Fino adesso. Fin quando cioè McVicar l’ha presa in mano, ne ha rispettato fin l’ultimo risvolto di trama e ambientazione, ma l’ha nondimeno rivoltata come un calzino per ciò che concerne la gestualità, quindi il carattere impresso ai personaggi, quindi in ultima analisi la vicenda raccontata: che scopriamo possa addirittura legarsi a filo doppio al grande teatro inglese in costume, da quello degli autori elisabettiani a quello di William Congreve, Richard Steele, Oliver Goldsmith, Charles Johnson, Richard Sheridan. Testi a rappresentare i quali la recitazione è l’unico elemento che davvero conti: e McVicar dimostra quanto un approccio del genere giovi a un’opera come Adriana.
Certo, sapeva già di poter contare su due protagonisti quali Gheorghiu e Kaufmann – giovani, belli, bravi nello stare in scena – e quindi ha potuto aver mano libera: come che sia, ne sono venuti fuori due personaggi sostanzialmente inediti. Maurizio diventa un fatuo soldataccio molto macho, che ridendo mette le mani sotto le gonne e il naso dentro le scollature, si lancia in rodomontate poetiche affidandole a mezze voci che nel dire quanto dicono si tingono per contrasto di sottile, giocosa ironia (e mai il “Dio, quante belle frasi” di Adriana è parso tanto calzante): a fronte, Adriana non è la solita diva imparruccata e sussiegosa, tutta pose matronali e seriosissime, bensì una giovane donna non meno facile alla sensualità di quanto sia lui, entrambi però spontanei, capaci di dimenticarsi di tutto e di tutti per inseguirsi, abbracciarsi, baciarsi in modo rapinoso ma sempre con un  sottofondo di gioco che dipinge un rapporto all’inizio molto e solo erotico, ma via via più serio, quasi prendesse a entrambi la mano. Il tutto, in una cornice scenica che esalta la funzione del teatro quale specchio della vita. Tutti gli atti presentano difatti due ambienti distinti, quello al proscenio e un altro sopraelevato cui s’accede per due scale elicoidali: nel primo si svolge l’azione vera e propria, che il secondo provvede a contrappuntare svolgendo una funzione da teatro nel teatro. Primo e ultimo atto dietro le quinte, in un camerino-salotto sopra il quale giganteggia un pa
lcoscenico visto da dietro, con  le sue filiere di luci; second’atto che sopra un salottino rococò ha un pianerottolo con tende e grandi colonne palesemente dipinte, tra le quali s’aprono usci segreti tanto cari al teatro boulevardier del “cielo, mio marito!”; terz’atto nel quale un salotto un po’ più ricco è sovrastato da un teatro vero e proprio in stile Bibiena, con le sue quinte in prospettiva per accogliere balletto e monologo. Ma la cosa essenziale è che una scena siffatta è pensata per esaltare una recitazione minuta, attraverso la quale si definiscono con strepitosa efficacia dapprima tipi e usi del teatro settecentesco riassunto nel busto di Molière piazzato al centro del proscenio (mai visto un prim’atto costruito su simile profluvio di notazioni realistiche, ironiche ma nel contempo abbastanza tragiche nel mostrare in sostanza una disperata lotta per sopravvivere: ricordiamo Tom Jones, oppure Moll Flanders, o la Fiera della vanità? Ecco, siamo da quelle parti. E quanto ci si sta bene!); poi una certa società (valgono le identiche considerazioni); infine i personaggi, che emergono con una verità e uno sbalzo quali ancora non avevano non dico avuto, ma neppure sospettato. Con un tocco sublime di genio riservato proprio per le ultime battute: quando Adriana muore sulle tavole del palcoscenico “reale”, sul palco rialzato in fondo – quello cioè della finzione, ma che una volta di più si rivela l’unica verità autentica – avanzano i teatranti in costume, s’allineano sul “loro” proscenio, e togliendosi gli esotici copricapo s’inchinano per l’estremo omaggio alla loro primadonna.
La fluidità di racconto, McVicar l’ottiene sia col profluvio di piccoli e piccolissimi gesti (nessuno dei quali inutile cincischio, bensì utile a definire qualcosa; e tutti adesi come un guanto a una corrispettiva nota), sia col non fare mai né entrare né stare un personaggio in una scena vuota, bensì come logica conseguenza dell’uscire di un altro nel primo caso, oppure contrappuntando un momento solistico con le mute controscene di qualcuno fatto restare in scena: in modo precipuo Michonnet, muto e dolente testimone della parabola di Adriana, ivi compreso un “Poveri fiori” nel quale la Gheorghiu accetta – e nel complesso vince – la temibile sfida di cantarlo avendo davanti la straordinaria mimica di Corbelli. Ma le scene tra Adriana e Maurizio, tutte sottese di sesso esplosivo; tra Maurizio e la Bouillon, nella quale lui non perde l’occasione offerta da un decolleté ipergeneroso nel quale – già che si trova lì, e dato che ogni lasciata è persa – immerge la faccia badando a convincersi d’annoiarsi; la prima parte del mortale delirio di Adriana, che un Maurizio indulgente e tutto sorriso fascinoso sembra prendere dapprima per un vaneggiamento mattutino della Gran Diva con cui avere pazienza; il profluvio di ruoli muti – c’è persino la pluricitata Duclos! – coi quali si movimenta in coreografia sapientissima il teatro del prim’atto e il salotto del terzo (decisamente, nessuno batte gli inglesi negli sceneggiati d’epoca: e questo ne è un formidabile concentrato); perfino quell’ignominiosa caccola del “russo Mencikoff”, si riscatta quanto meno sulla scena – in musica non è possibile – nell’essere trattata non quale inno nazionale bensì quale sberleffo a un’accozzaglia di vecchi bavosi e vecchie in fregola: tutta la vicenda, insomma, screziandosi di beneficissima ironia, vede i molti intermezzi tra una scena madre e l’altra assumere il compito di necessarie diastoli per rendere più efficaci le sistoli tragiche. Questa sì, che si chiama regia: perché rende teatro autentico quanto altrimenti rischia grosso d’essere un’accozzaglia di belle frasi melodiche inframmezzate da tunnel vuoti. Molti vanno insinuando che McVicar ha “perso il tocco”, perché spesso sta facendo teatro in costume; perché racconta esattamente la vicenda leggibile nel libretto; e perché lo fa con chiarezza e immediata, totale comunicativa. Vero, fa proprio così. Ma se provassimo a istituire un parallelo scena per scena con gli spettacoli di De Tomasi, Copley, Mariani, Stefanutti, Lamos che negli ultimi cinquant’anni hanno retto nel mondo la storia scenica dell’opera? Anche la regia di Puggelli, la migliore e che pure parte da analogo intento di allacciare la vicenda ad un astratto concetto di teatro, al confronto pare tentativo volonteroso ma banale. Sono i piccoli gesti, che nel minuto sommarsi rendono efficace – anziché solo melodrammaticamente bombastico – il Gran Gesto, a fare la differenza. No, McVicar non è decotto: se qualcuno rischia di non vederlo più, non è perché è rimasto indietro, ma perché è troppo avanti sulla strada del teatro veramente moderno.
Così come la direzione di Mark Elder è modernissima nel suo analogo stingere in ironia e giocosa schermaglia amorosa gli incontri di Maurizio con Adriana e, fino a un certo punto, con la Bouillon; nel suo spumeggiare con l’orchestra sotto al chiacchiericcio dei teatranti; nell’accompagnare con sapida ironia non solo Mencikoff ma anche il ballo, musiche orrende che possono riscattarsi e prender senso solo se avvolte  nello scherzo salottiero (splendida, al riguardo, la coreografia “dilettantesca” di Andrew George); ma anche nello stringere un po’ le briglie al deliquescente estenuarsi del melodizzare di Cilea che – a furia di esaltarne le volute liberty immergendole in delicata luce d’opaline – si rischia di vederle svaporare laddove possiedono (possederebbero) ben solide nervature di verità umana. Tanto la regia quanto la direzione, in stretta simbiosi reciproca, esaltano un cast del quale la prima virtù consiste nell’essere per l’appunto – all’inglese – molto più una vera e affiatatissima compagnia che un raduno di star preoccupate del loro singolo orticello vocale.
Angela Gheorghiu di rado m’è apparsa tanto brava. Vero, qualche affondo sotto il rigo è un tantino aperto; vero, il declamato non è la sua tazza di tè (e le sfugge, nel monologo, l’intento “privato” che la regia metterebbe invece in luce; però si riscatta concludendolo con due vibranti la bemolli e due raggianti la naturali, in luogo delle stridule urlatine che tanto spesso s’ascoltano); vero, qualche artefatto trucchetto qua e là fa capolino: ma la linea vocale è solida, ben proiettata e benissimo controllata da una musicalità di natura strumentale che le consente rarefazioni, assottigliamenti, rinforzi, un lavoro insomma eccezionale di dinamica, che dal personaggio tira via tanto la cipria del manierismo quanto la polvere della retorica, di quel “far Diva” che lungi dal valorizzarlo hanno contribuito invece a banalizzarlo e soprattutto ad invecchiarlo. Questo, di conserva all’ottima recitazione e, perché no?, del fisico: ne sorte un’Adriana straordinariamente riuscita.
Così come Kaufmann – una volta di più – rivolta come un vecchio calzino il proprio personaggio. Ne fa un fascinoso mascalzone lavorando su mezzevoci quasi incredibili (sìssì, d’accordo: qualche sospetto di falsetto fa capolino, ma a mio parere ci sta benissimo perché la lieve falsità vocale finisce col sottolineare la fatua ironia del suo eloquio) che trapassano in subitanei abbandoni di virile incisività, cui molto contribuisce quel suo compatto timbro brunito, e moltissimo la vasta tavolozza cromatica di cui sostanzia un fraseggio straordinariamente ricco di sfumature, ciascuna col corrispondente gestuale a completarla nella direzione d&
rsquo;una giovanile, travolgente spontaneità. Insieme alla Gheorghiu (che l’inizia con un superbo “Poveri fiori”), l’intero quart’atto è un memorabile capolavoro, apice il duettino “No, la mia fronte” tutto alitato sul soffio d’una mezzavoce che il suo galleggiare sempre sul fiato rende però corposa e timbratissima.
La Borodina è un po’ imbalenita, a fronte d’una voce viceversa alquanto smagrita: però non sbraca nello scendere sotto al rigo, canta sempre (persino i tre fa di “Restate”, affidati a un gelido ancorché ansioso sussurro), gli acuti sono ancora solidi e timbrati, e il confronto tanto fisico quanto vocale tra la sua matronale Bouillon e la fatua virilità di Maurizio è qualcosa che di sicuro non s’era mai visto. Corbelli è Corbelli: un attore che recita e fraseggia all’inglese (quelli che credono fermamente nella regola scenica del less is more, meno fai e meglio riesci) ma che canta all’italiana, benissimo e col timbro magnifico che gli è proprio. Perfetti tutti i ruoli di fianco, magnifica la recitazione d’ogni componente del coro nel salotto della Bouillon, che anziché la solita masnada di sgarrupati stereotipati è qui uno spaccato di società settecentesca che starebbe a meraviglia anche in un ipotetico sceneggiato della Fiera delle vanità di William Thackeray.

Elvio Giudici


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306 Novembre 2024
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