interpreti I. Bostridge, S. Keenlyside, S. Cvilak
direttore Gianandrea Noseda
orchestra London Symphony
2cd Lso Live 00719
“Il mio soggetto è la guerra, e la pietà della guerra. La Poesia è nella pietà. Un poeta non deve che ammonire”. Questa l’epigrafe che Wilfred Owen (morto venticinquenne in un’azione militare nel nord-est della Francia a una settimana dall’armistizio dell’11 novembre 1918) pose alla propria raccolta di poesie, non molte ovviamente ma tutte di grande valore: nove delle quali, sono da Benjamin Britten inserite nel suo War Requiem, commissionatogli quale solenne celebrazione della nuova cattedrale di San Michele a Coventry. La quale, rasa al suolo dalla Luftwaffe nel novembre 1940 al pari della città tutta (new entry nel vocabolario inglese fu da allora il verbo “to coventry”), risorgeva nel 1962 ad opera dell’architetto Basil Spence, che incorporò i superstiti frammenti bruciacchiati della torre e di parte del muro perimetrale in una geniale costruzione di vetrocemento: uno di quei luoghi dove la Storia grida prepotentemente orrore e ammonimento. Come austeramente li grida la musica di Britten, che a sua volta incorpora le poesie di Owen quali schegge di pietà provenienti da un orrore disumano entro una costruzione più vasta: tenore e baritono – sostenuti da un complesso da camera – le fanno difatti luccicare entro le possenti pieghe del tradizionale testo latino della Missa pro Defunctis, affidato a grande orchestra e coro, da cui si stacca talora la voce del soprano e su cui talora piove il suono d’un coro di voci bianche sostenuto dall’organo. Requiem cui la natura contingente della commissione fornisce quindi un forte surplus emotivo nel legarlo tanto alla follia distruttiva – non riduttivamente d’una guerra, bensì della guerra – quanto a una tenue speranza che possa schiudersi un nuovo cammino per andare avanti: ma, in ogni caso, una composizione cui a mio avviso pertiene lo status di capolavoro senza altri aggettivi.
Difficile, tuttavia, non solo da eseguire per ciò che concerne la complessa scrittura: forse ancor più per le esigenze logistiche che l’architettura sonora impone. Le due orchestre grande e piccola, vanno separate oppure questa può essere dispersa in quella? Pappano, a Roma, optò per la seconda soluzione e se ne dovette constatare l’esito fallimentare. D’altronde, alla prima esecuzione Britten dirigeva da una parte l’orchestra da camera e dall’altra Meredith Davies guidava quella grande, accentuando così la spazialità differenziata che a sua volta enfatizza i due diversi piani espressivi che, pur nella globalità complessiva, debbono pur sempre dialogare tra loro e per farlo necessitano di due spazi prossimi ma separati. Non per nulla la soluzione migliore la s’ottiene in una sala teatrale: Bruno Bartoletti ad esempio, nei bei giorni in cui stava a Parma (bei giorni soprattutto per Parma), seguì dappresso i suggerimenti ricevuti da Britten piazzando l’orchestra da camera in buca, e la grande in palcoscenico davanti al coro, con tenore e baritono al proscenio e soprano in alto sul fondo, in posizione più elevata di tutti. Nel caso presente, decisione migliore non poteva prendere la Emi, che ha richiamato in attività il glorioso James Mallinson: uno dei più geniali record producer della storia del disco, artefice di registrazioni mitiche per la casa col cagnolino, e che difatti è riuscito a quadrare il cerchio. Grande orchestra e coro, avvolgono ma non soffocano l’orchestra da camera e le due “dramatis personae” impegnate coi testi di Owen: dando a queste non solo una sorta di cinematografico primo piano che le pone per così dire in rilievo, ma le distanzia orizzontalmente tra loro, quasi una di fronte all’altra; quanto al coro di voci bianche e all’organo da camera che ne sostiene il canto, sono suoni che davvero sembrano piovere dall’alto, da una distanza remota eppure – chissà come – oltremodo presente.
Mobilità e varietà del fraseggio interno; pulsione dinamica che sfrangia il divenire sinfonico di conserva al definirsi dell’impulso ritmico; flessibilità quasi virtuosistica nell’articolare la contrapposizione tra grande e piccola orchestra, ovvero tra la severa struttura corale che parla latino e la molteplicità espressiva – ironica amarezza, allucinata desolazione, rabbiosa rivolta – dei versi inglesi: la direzione di Noseda s’iscrive tra quelle destinate a porsi quale termine di riferimento. Così come lo sono le due portentose interpretazioni di Ian Bostridge e Simon Keenlyside: la scolpitura della dizione diventa materiale privilegiato per l’intelligenza, sensibilità, fantasia di due artisti in stato di grazia. Il coro è anch’esso di livello notevolissimo, con momenti di pura poesia come nelle lente spire del Recordare o nello stravolto formicolare cromatico del Sanctus; e molto bravo il coro di voci bianche dell’Eltham College. Esecuzione insomma superba d’uno dei capolavori più alti della musica del Novecento.
Elvio Giudici