interpreti C. Forbis, J. Di Giacomo, C. Sgura
direttore Keri-Lynn Wilson
regia Eimuntas Nekrosius
teatro Petruzzelli
BARI
BARI – Bella inaugurazione di stagione al Petruzzelli di Bari. Non che negli ultimi anni non si fossero visti allestimenti frutto di un analogo impegno produttivo; o che l’orchestra di giovani bravi e precari suonasse peggio di questa, nuova e “a tempo indeterminato”. Un bel segnale arriva anche dalla nomina di Daniele Rustioni, talento trentenne, a direttore musicale; ma non si può dimenticare che prima capitava di vedere sul podio anche un maestro come Lorin Maazel.
La nuova gestione del commissario Carlo Fuortes, in ogni caso, punta sulla continuità: di direttori, di contratti, di identità artistiche. La stagione appena iniziata, per esempio, chiama sei “registi-autori” per altrettante nuove produzioni: Nekrosius, Ronconi, Livermore, Emma Dante, Krief, Barberio Corsetti. Per scelta e convinzione. O anche grazie a nuove risorse e disponibilità?
Così l’Otello del Verdi bicentenario lo mette in scena uno shakesperiano come Nekrosius. Con gesti, scene, “attrezzi” del suo mondo archetipico e fiabesco. Una pedana tondeggiante e reclinata è la piazza, gli alti paraventi il castello. Quando si aprono, bastano tre termosifoni ad alludere alle stanze del palazzo. I sacchi di iuta rappresentano il potere, la “robba”. E i personaggi si accalcano, agitano e poi si fronteggiano con una gestualità fatta di codici astratti, quasi segnaletica. Da teatro “primordiale”. Se l’antinaturalismo è cifra consolidata del regista lituano, qui trova una speciale sintonia con quel radicale manifesto contro il realismo (fuori tempo massimo, purtroppo) che è il libretto di Boito: i giochi verbali e le iperboli intrise d’arcaismi “corrispondono” alla fantasiosa e irreale gestualità d’attore.
La grammatica cifrata di Nekrosius interpreta alla perfezione i significati di un declamato verdiano tanto intriso di letterarietà (su tutti il Credo cantato da Jago sulla poltrona, rannicchiato: simbolo di sete di potere e insieme d’insicurezza), ma costruisce solo di rado percorsi narrativi più ampi: come quando la Desdemona felice sbatte le sue grandi ali da colomba, che poi nella scena finale servono da bara, dove trova posto anche Otello. È il momento più intenso dello spettacolo. Il rapporto tra Otello e Jago, per contro, è meno definito nei suoi sviluppi interni. Il Moro è ormai sottomesso, ma poi nella scena successiva maltratta e scaraventa per terra il suo nuovo capitano…
L’alata “partitura” visiva si riflette comunque in quella musicale: in uno Jago, Claudio Sgura, più insinuante che tonitruante, ma non per questo meno “nero”. E in una Desdemona, Julianna di Giacomo, di bel timbro e sensibilità, ma dalla parola poco scavata. Alla loro solidità vocale si contrappone invece la precarietà dell’Otello di Clinton Forbis, squillante e potente negli acuti raggiunti con sforzo, sotto i quali si scoprono però suoni incerti, disordinati, “vuoti”. A riequilibrare l’insieme ci sono le voci di Francisco Corujo (Cassio) e Roberto Abbondanza (Montano), seconde parti di lusso. Keri-Lynn Wilson, sul podio, si apprezza più per quello che non fa: le esplosioni sonore, le impennate veementi che odorano di verismo. Ma poi il suo gesto è monotono, il passo uniforme, “non fa teatro”. Né svela la proteiforme ricchezza di un’orchestra che Verdi concepisce come controparte strumentale del testo. E che i giovani vincitori di concorso in buca avrebbero avuto piglio e mezzi per rendere viva.
Andrea Estero