interpreti P. Petibon, M. Volle, T. Piffka, P. Breslik, F. Grundheber, T.A. Baumgartner, T. Mayer
direttore Marc Albrecht
orchestra Wiener Philharmoniker
regia Vera Nemirova
regia video Brian Large
formato 16:9
sottotitoli It., Ing., Fr., Ted., Cin., Cor.
2 dvd EuroArts 2072568
Quando finalmente andò in scena, questo spettacolo si portava già sul groppone la nomea d’essere stato costruito coi riporti: previsto in origine con la regia di Jürgen Flimm e la direzione di Nikolaus Harnoncourt (i quali, a quanto si sussurrava, avrebbero voluto proporre la versione in due atti: se è vero, benissimo hanno fatto i responsabili del festival a dire no grazie), aveva subìto anche diverse sostituzioni nel cast, a partire da Alwa che avrebbe dovuto essere impersonato da Michael Schade. Il poco tempo a disposizione concesso ai molti sostituti dell’ultima ora, è stato variamente sfruttato: ma chi ne è uscito di gran lunga meglio è stato Marc Albrecht.
Marc è il figlio di George (il quale non va confuso con Gerd, con cui non ha alcuna parentela salvo la curiosa somiglianza del nome, il curioso dato biografico dello stesso anno di nascita, 1935, e il curiosissimo fatto che Marc, dopo gli studi iniziali col padre, proprio di Gerd divenne assistente ad Amburgo dopo esserlo stato di Claudio Abbado alla Mahler Jugendorchester): uno di quei seri Kapellmeister cui la Germania deve gran parte della ricostruzione del proprio tessuto musicale quotidiano, nella fattispecie a Brema e poi soprattutto ad Hannover, dove giunse nel 1961 e dove, dopo quattro anni, divenne direttore musicale. Le solide basi acquisite dal solidissimo (e soprattutto saggiamente graduale) tirocinio, hanno permesso dunque al giovane Marc Albrecht di sviluppare le proprie doti già oltremodo personali: per sei anni al teatro di Darmstadt dove ha diretto di tutto e di più (Karajan non perdeva occasione di raccomandare un tirocinio siffatto per chiunque intendesse diventare direttore d’orchestra, ricordando quanto fondamentali fossero stati per lui gli anni passati a Ulm); per quattro anni primo direttore ospite alla Deutsche Oper di Berlino; nominato nel 2008 direttore musicale della Filarmonica di Strasburgo con la quale cominciò a incidere i suoi primi dischi. Nello stesso anno, la Frau ohne Schatten diretta alla De Nederlandse Opera di Amsterdam suscitò ammirazione tale da valergli la nomina – effettiva dal 2011 – a successore sia del compianto Yakov Kreizberg quale direttore musicale della Netherlands Philharmonic, sia di Ingo Metzmacher quale direttore musicale del teatro olandese: che finora non ha avuto una propria orchestra stabile preferendo impiegare di volta in volta compagini diverse, ma pare orientato a cambiare idea proprio con tale nomina, che assume dunque valenza ancora maggiore.
La si comprende, ascoltando questa Lulu nervosa nei suoi ritmi asciutti e dai profili nitidissimi; incisiva nelle sonorità aspre e percorse da continue pulsioni dinamiche; chiarissima tanto nelle micro come nelle macrostrutture, ricca ciascuna di colori sgargianti ma mai troppo ostentati; e nelle quali l’accavallarsi e il compenetrarsi armonico entro lo spesso tessuto strumentale – le assonanze del quale con quello di Mahler sono rese tanto evidenti da parer quasi assaporate – ha l’evidenza d’un tracciato encefalografico. Certo, aiuta il disporre di un’orchestra come i Wiener, capace di ondate melodiche addirittura stordenti (“canta” persino lo xilofono; e come canta!): ma non basta salire su una Ferrari per vincere, occorre anche saperla guidare. Manca forse, questa direzione, d’una fisionomia teatrale marcata e dalla riconoscibile personalità: ma difficile è far tutto da soli, in un’opera simile.
Tanta aria fritta, difatti, nella regia. L’apprendistato con Konwitschny ha fornito alla bulgara Vera Nemirova basi tecniche di tutto rispetto: ma anche un atteggiamento di fondo nel quale ineliminabili paiono talune ossessioni ideologiche che, ove si scontrino con un testo già di suo estremo (perché fondato sulla doppia tecnica dell’esagerazione spinta verso l’assurdo, e del sistematico pugno al plesso solare dello spettatore: e sia pure lo spettatore di primo Novecento, che oggi non sarebbe neppure assimilabile all’educanda nel pio Collegio Mariuccia), si rivelano un boomerang tremendo.
Riempire la Felsenreitschule con una scenografia, è sempre impresa scabrosa. Il compito è stato stavolta affidato a David Richter, pittore inserito in quella corrente neoespressionista che in Germania pare sia molto di moda (e quindi disputata dai collezionisti a suon di assegni pesanti) e sulla quale non avanzo giudizi salvo constatare che, in linea di massima, un quadro non “fa” di per se stesso scenografia ove non diventi necessario complemento d’una regia. Il primo atto è dominato da un grande ritratto di Lulu in négligé bianco e poderose ali candide sulla schiena, fatto ruotare su se stesso nell’ultima scena perché mostri una superficie riflettente che, nel suo accogliere direttore e pubblico, si suppone voglia alludere (ma male) al teatro. Nel secondo, il dato narrativo costituito dal colera che infuria viene raccolto e amplificato da un’enorme tela popolata di lemuri indistinti che coi loro gialli e rossi magari vorrebbero rifarsi a Munch o addirittura a Schiele ma restano solo Richter, pallido emulo fuori tempo massimo dei peraltro modesti prebellici Emil Nolde e Karl Schmidt-Ruttluff. L’ultima tela è riservata alla seconda scena del terz’atto, ed è una strana, anonima foresta innevata davanti alla quale sta piantata una sorta di tenda sulla quale la Geschwitz appiccica misere fotocopie sdrucite del ritratto che giganteggiava nel prim’atto. Le tele mascherano completamente non solo le gallerie della Felsenreitschule ma anche gran parte della superficie del palcoscenico, ridotto in pratica a una sottile striscia sul proscenio: sulla quale la regia tenta un teatro da camera nel quale conciliare i toni del vaudeville, del dramma sociale e dell’allegoria. Privilegiando nettamente quest’ultima, ma in modo sostanzialmente irrisolto.
Che il sesso possa essere miscela detonante per le contraddizioni dell’ipocrisia borghese, è ovvio come dipenda dal tipo di società. Funzionava benissimo in un ambiente quale la Vienna di primo Novecento impegnata a leggere Sesso e carattere fingendo di scandalizzarsi anziché ammettere di stare sfogliando un diario della propria vita quotidiana: oggi, con quello che ci informano giornali e televisione circa la vita politica planetaria, mi pare occorra procedere per metafore un tantino più complesse dei palpeggiamenti genitali e d’un burocratico sesso di gruppo all’inizio del second’atto, a mo’ di commento alle dichiarazioni d’amore di Alwa. Francamente, questa Lulu fatta aggirare in mutande e reggiseno con sorriso che vorrebbe essere enigmatico ma riesce solo da Barbie imbronciata; che si toglie la mutanda rossa consegnandola allo stranito cameriere; che tocca di continuo e si fa toccare, fingendo indifferenza: lungi dal suscitare frisson anche moderati, rischia grosso di scimmiottare l’umorismo greve dei film goliardici americani. Quelle maialate collegiali tipo Porky o American Pie, ideale niente nascosto dei più pecorecci Grandi Fratelli nostrani. L’idea centrale, poco definita e pochissimo svolta, è che Lulu sia l’eterna bambina, sogno di uomini che della donna hanno paura: come Schön. Che la vuole così, perché fondamentalmente impotente: parrebbe difatti indicarlo la simbologia dell’argentea scultura fallica flessibile di plastica presente nelle scene del prim’atto, e che si affloscia ogniqualvolta lui allude a lei. Una storia che getta luce ambigua sul finale: in quella landa desolata – probabile simbolo del deserto dei sentimenti anziché squallida ma in qualche modo vitale Whitechapel prevista dal testo – Lulu si avvicina lentamente a Schön/Jack, aprendo le braccia alla morte come in una volontaria crocifissione. Contemporaneamente, la Geschwitz scende in platea e, lungi dal morire, se ne va, probabilmente all’università a finire i suoi studi come ha dichiarato avrebbe fatto: idea che ciascuno può prendere come vuole, ma a me pare una scemenza da femminismo fuori tempo massimo peggio di quanto siano le tele di Richter.
La notevole tecnica teatrale posseduta dalla Nemirova, insomma, è l’unica cosa che tenga in qualche modo in piedi la narrazione. Un eccellente impiego dello spazio scenico vien fuori dal come sa muovere i personaggi nel second’atto, dove una grande piramide centrale, piena di aperture, funge da entrata, fuga e nascondiglio per la clownesca fauna che infiltra il mondo borghese di Schön svelando quanto effimera ne sia la solidità di facciata. Molto d’effetto (ma effettistico mi parrebbe termine più appropriato, con tutto quanto di superficiale banalità comporta questa soluzione al problema di farci avvertire che Lulu è tra noi, e che noi nel profondo abbiamo bisogno di tale Lulu) è la prima scena del terz’atto. Svolta quasi del tutto in platea, tra le file degli spettatori cui vengono consegnati illusori pacchi di banconote da 500 euro, tra luci stroboscopiche rotanti e profluvi di bicchieri che passano di mano in mano: ma il geniale chiacchiericcio musicale – che Albrecht dipana con grande abilità – ne ha i contorni non poco sfumati.
Patricia Petibon è una Lulu mignonnette di fisico ma purtroppo anche di voce, il registro centrale troppo esile, la linea troppo accidentata, il colore timbrico troppo uniforme per poter costruire un personaggio capace di porsi quale termine di confronto in alcun modo valido coi formidabili esempi che l’hanno preceduta. Volle è invece ancor meglio qui che a Londra nel dvd di Pappano/Loy, quantunque neppure la sua grande abilità riesca ad impedirgli di bordeggiare dappresso un eccessivo istrionismo. Strepitoso Pavol Breslik: un Pittore per una volta giovane sexy tutto impeti e carnalità tanto nel fisico quanto nella linea vocale, esatto contrario di Schön e destinato pertanto a soccombere (ma la sua raffigurazione del Negro è a dir poco impressionante), e che canta talmente bene da desiderare avesse scambiato ruolo con Thomas Piffka, un Alwa francamente modesto al di là di qualche acuto azzeccato. Sempre grandioso artista Grundheber; bellissima ma affetta da vibrato importante la Geschwitz della Baumgartner; e di rilievo i ruoli di contorno, tra i quali spicca il glorioso Heinz Zednik nei panni del Principe e del Maggiordomo.
Elvio Giudici