soprano Cecilia Bartoli
direttore Diego Fasolis
orchestra I Barocchisti
cd Decca 4732
Altro disco della Bartoli. Altro gran starnazzare delle cocorite talebane, custodi dell’arcaico baroccheggiare delle primedonne anglosassoni anni Sessanta-Settanta e quindi autoelettesi Erinni all’amatriciana nei confronti di chi tiene aggiornato il proprio calendario espressivo. Rea pertanto d’ogni possibile lesa maestà vocale (e lei canta da cinque lustri: qualcuno me lo dovrà pur spiegare, come sia possibile durare tanto senza uno straccio di tecnica, del che puntualmente l’accusano). Altro scandalo davanti a una confezione che mescola esegesi a tutto campo – musicale, storico, politico, gossiparo – con ammicchi fotografici che ricordano le celebri copertine dei recital di Mina nel loro mixare stile rock, fumetto, nonsense; con in più un inedito tocco giallista cui provvede Donna Leon che vi anticipa un proprio romanzo dove pare svolgerà ruolo importante proprio Steffani, complice la sua biografia nella quale accanto al compositore convivono lo statista, il diplomatico dalle trame visibili e, molte di più, occulte, il missionario cattolico in terre protestanti. Per me, tuttavia (e per quel che vale): semplicemente un altro, bellissimo disco di Cecilia Bartoli.
Che innanzitutto ha il merito di gettar luce – e luce sufficiente a farne discernere le caratteristiche essenziali – su di un compositore che per molti versi può rappresentare un attendibile anello di congiunzione tra il linguaggio barocco di Cavalli e quello pienamente rococò dei Vivaldi e successori, verso la gran torre di Händel. La biografia d’un musicista che nasce in Italia, si forma a Monaco, trascorre parecchi e fruttiferi anni nella Parigi di Lulli, si stabilisce infine in Germania e per giunta proprio in quella Hannover dove fiorirà definitivamente l’arte di Händel: è una biografia ideale a spiegare l’intreccio tra il geniale Lamento di Cavalli, lo stile danzante di Lulli coi tipici colori smaltati dei suoi legni, il contrappunto tedesco; intreccio nel quale prende forma uno stile molto particolare che – a prescindere dalle soggettive valutazioni qualitative – di tale Terra di Mezzo abbastanza incognita dà un’idea molto concreta. E molto affascinante: merito intrinseco della musica, certo; ma ancor più certamente, merito dell’esecuzione.
Col determinante concorso della direzione di Fasolis, che ai suoi magnifici Barocchisti estorce prodigi di colori d’ogni tipo o gradazione, sempre però intrisi di quell’esultante iridescenza ideale a far blocco col tipo d’espressività da sempre connaturato alla sua voce, la Bartoli giunge finalmente in vista di quelle spiagge protobarocche dei Cavalli e Monteverdi che a parer mio la stanno aspettando da fin troppo tempo. Se presenti – e spettacolari come non mai – sono brani riferibili alla fase terminale di tale succitato percorso, cioè a dire previvaldiani coi relativi fuochi pirotecnici d’una coloratura rapida come solo riesce e piace alla Bartoli (le piace perché le riesce), sgranatissima, mai ingolata o meccanica bensì morbida, intonata ch’è una meraviglia, tutta percorsa da strette e rilasci così da renderla ovunque varia, pulsante e “in avanti”, antitesi perfetta di talune emissioni fastidiosamente fisse che tuttora perdurano nonostante il loro essere fuori stile. E se in generale l’apparato virtuosistico non smette d’essere eccezionale in attacchi di precisione e musicalità esemplari, in trilli languidi e di forza entrambi fosforescenti, in messe di voce portentose rese possibili dal controllo millimetrico – e musicalissimo – dell’emissione: se tutto questo c’è ancora e come sempre paga mirabili dividendi espressivi, i brani da collocare invece verso l’altro versante, quello post-cavalliano, sono forse ancor più sbalorditivi. E lo sono, aggiungo subito, perché una tecnica magistrale nel produrre, controllare e dunque manipolare in ogni modo possibile il suono sotto lo stimolo di un’immaginazione mantenuta però sempre in un rigorosissimo ambito stilistico, li fa esegesi musicologiche oltremodo convincenti, ben al di là della pura eccitazione vocale.
Il grande Lamento cui Cavalli affida la parte migliore del suo genio, è portato avanti da Steffani in brani di estrema libertà e indefinibile classificazione (non sono né arie né ariosi né recitativi, ma un po’ di tutto questo, perché scaturiscono da una situazione ben precisa, pertanto non mai autoreferenziali bensì provvisti di specifica ragione drammatica): brani nei quali imperativi sono produzione d’un legato così solido da reggere le ampie, talora amplissime campiture delle frasi, e capillare lavoro sulla parola. Che non significa solo dizione perfetta (quantunque una perfezione come quella sempre sfoggiata dalla Bartoli, sopporta ben pochi paragoni oggi, e figuriamoci ieri). Significa far cantare le consonanti non meno delle vocali. Significa dare il giusto valore di durata ai diversi dittonghi di cui si compongono le parole, e far emergere la parola chiave d’ogni frase dandole coloriti sempre diversi nei molti suoi ritorni musicali. Significa, infine, spargere per ogni sia pur minimo anfratto del fraseggio quel quid indefinibile che si chiama fantasia, estro, insomma carisma: fattore questo decisivo dell’estetica barocca (comune ad architettura, pittura, scultura, poesia, musica) molto più che di tutti gli altri periodi.
E se da una parte il fraseggio illumina la bellezza musicale di ciascun brano rendendolo una preziosa scoperta, dall’altra ne valorizza un aspetto ancor più intrigante per quanto concerne la storia del teatro musicale. Alcune pagine sono singolarmente brevi perché facenti parte di una scena talora piuttosto complessa, sicché udirli isolati dal contesto mortificherebbe uno sviluppo drammaturgico di stupefacente modernità: ma se ascoltiamo il recital tutto di seguito, ci si avvede della sottile intelligenza con cui è stato costruito. Il brano minuscolo sorte da un’aria di ben più vaste dimensioni; oppure da un duetto (tipo di composizione nel quale Steffani era particolarmente versato; ce ne sono quattro, e in ciascuno la fusione musicale ed espressiva tra Bartoli e Philippe Jaroussky è mirabile); oppure da una scena con coro: e la successione non è mai casuale per quanto attiene al diverso clima espressivo, quantunque spesso un brano si sviluppi quale intensificazione o ramificazione d’un sentimento esposto nel precedente, alternandosi quindi la vastità dell’affresco alla miniatura. Procedimento, pertanto, che recupera una delle caratteristiche più moderne riscontrabile nei massimi capolavori di Cavalli nonché – sia pure con tutt’altro stile – in quelli di Rameau. Il recital si configura come una miniopera, insomma. Una gran bell’opera. Un’opera eccezionalmente eseguita, ma ancor più eccezionalmente interpretata.
Elvio Giudici