interpreti A. Maestri, M. Cavalletti, B. Frittoli, E. Liebau, J. Camarena, Y. Naef, M. Zysset, D. Fersini
direttore Daniele Gatti
orchestra opera di Zurigo
regia Sven-Eric Bechtolf
regia video Felix Breisach
formato 16:9
sottotitoli It., Ing., Fr., Ted., Sp., Cin.,Cor.
dvd Cmajor 711108
A mio avviso, c’è una fondamentale discrepanza tra la direzione di Gatti, direttore per me il migliore che Verdi possa oggi sperare, e uno spettacolo che all’indubbio merito di eliminare molte – ma non tutte, purtroppo – delle insoffribili caccole buffonesche da sempre appiccicate su quest’opera, contrappone diverse cadute nel preziosismo intellettual-chic: ovvero caccole forse ancor più insidiose.
Bene (quantunque troppo asettica per una musica nient’affatto crepuscolare e men che mai ospedaliera come quella verdiana) la scena fissa, stilizzata sezione frontale d’una facciata a capanna il cui fondo ha nella metà inferiore una parete con una porta al centro e due finestre per lato, mentre in alto è tutta aperta su di una luce bianca. Al suo interno, oggettistica ridotta al minimo indispensabile: quattro tavolini con qualche sedia per la taverna; due lunghe panchine bianche con gli schienali contrapposti per il giardino, alluso dalle sette piante in vaso sullo sfondo del tutto aperto; un unico grande covone di fieno per la prima scena del terz’atto; tappezzeria a grossi mazzi di rose, paravento tavolino e cesta per il salotto di casa Ford; un velario dipinto a delicate fronde arboree per l’ultima scena.
Bene, quantunque troppo insistita, l’idea di bloccare alcuni personaggi in un frame-stop al fine di portarne altri in primo piano (le scene Fenton-Nannetta del secondo quadro, ad esempio, che di colpo vengono immerse in una luce rosata: personalmente, tuttavia, all’ironico rosa da spot dei cioccolatini preferirei qualcosa di alquanto più carnale, la musica mi pare vada ben altrimenti sul concreto, nonostante l’orrida tradizione abbia sempre teso a nasconderlo facendone due grulletti alla Peynet). Bene soprattutto la gestualità per lo più fluida e quotidiana, che ad esempio evita a Quickly le sue abituali smorfiacce, e pare di sentire il teatro verdiano tirare un sospiro d’incredulo sollievo.
Anche per questo, male invece le danzette cui ogni tanto indulgono le donne: caccoletta in puro stile Pier’Alli, che con Verdi ci sta come l’aglio sui canini di Dracula. Molto male l’idea di abbigliare Falstaff alla moda elisabettiana, coi due servi costretti a fare altrettanto quando sono con lui, e a togliersi la parruccona tutta boccoli biondissimi quando non lo sono, vicino a tutti gli altri che vestono anni Cinquanta: non è certo con queste cianciafruscole che si sottolinea l’essere Falstaff un estraneo all’ambiente che lo circonda. Pessima l’idea di far arrivare in casa Ford una truppa di pompieri con elmo dorato in testa, che ciondolano catatonici per ogni dove e neppure danno una mano alle povere donne per sollevare la cesta, e comunque stridono maledettamente con la gestualità fin lì abbastanza scorrevole e soprattutto chiara, con talune idee ottime: ad esempio Meg che capisce chi c’è davvero dietro al paravento, corre ad avvisare Quickly e insieme fanno arrivare Alice per salvare la situazione; oppure anche un “Quand’ero paggio” molto spontaneo, con Falstaff che lo srotola tenendo in mano un piattino con una fetta di torta che provvede a tagliare. Brutta la soluzione dell’esterno della taverna, con tutti costretti ad appollaiarsi a varie altezze su quel covone alle spalle di Falstaff. Bruttissime quelle figure che nell’ultima scena stanno ritte a fingersi alberelli, e neppure granché risolta la scena del tormentone nei confronti di Falstaff, benché vada detto che lo è tanto di rado e così tanti si siano anzi coperti di ridicolo, che in fondo questa è tra le meno peggio.
Se lo spettacolo è irrisolto, comunque, la colpa è soprattutto di Gatti. Troppo mercuriale la conduzione ritmica della sua conversazione, a fronte d’una generica paciosità scenica. Troppo ricca di strepitosi particolari strumentali senza che neppure uno scada nel fastidioso preziosismo cui viceversa indulge spessissimo la scena. Troppo pulsante di continuo una dinamica che sospinge freneticamente la narrazione oppure ne mantiene la tensione interna nell’indugiare su aperture melodiche la cui fulminea durata non esclude, ma semmai esige, una densità sonora che quest’orchestra chiaroscura tuttavia di una moltitudine di penombre luminose e cangianti: a fronte d’un biancore scenico diffuso che fa tanto corsia d’ospedale. Troppo finemente calibrata e diversificata – senza per lo più alcun riscontro scenico – è la moltitudine d’incisi che volgono al comico talune pietre angolari della grammatica e sintassi musicale: lo scapricciante modulare che rinvia di continuo la cadenza tonale, per dirne una; o l’intersecarsi contrappuntistico; o la solennità d’un ritmo di marcia che esalta non più l’eroe romantico o il Padre Guardiano d’un convento tra i monti percossi da uragani, bensì un incontenibile viveur godereccio. Troppo teatro shakespearianamente ovvero verdianissimamente inteso si sente, insomma, con la sua valanga di accenti, colori, chiaroscuri, perché quanto si vede non appaia parecchio smortino e slavato.
Ambrogio Maestri, negli anni è divenuto senza dubbio un Falstaff di grande spicco: fraseggio variatissimo grazie alla sempre più marcata propensione a un canto sfumato, tutto mobilità dinamica e a fior di labbro nell’ambito d’una musicalità impeccabile cui fa riscontro un gioco scenico senza particolari voli – che comunque competerebbe alla regia sollecitare dandogli qualcosa di valido da fare – ma ovunque vivido e senza nessuna di quelle cadute di gusto cui ci s’è purtroppo dovuti abituare. Massimo Cavalletti sta cominciando ad ampliare la propria tavolozza vocale, includendovi anche i piani e più in generale diverse sfumature, che nel costruire un personaggio anziché limitarsi alla semplice esibizione muscolare d’un materiale senza dubbio privilegiato, rende il suo canto ben più interessante. Barbara Frittoli è l’ottima Alice che ben si conosce, con qualche durezza in più ma anche con maggiore scioltezza d’accento. Eva Liebau fa l’ennesima Nannetta molto stile Barbie, ma purtroppo il Fenton bambolotto di Javier Camarena tutto è fuorché Ken: e se non cantano troppo bene, neppure sono troppo male. Yvonne Naef fraseggia più con la classe che con la voce, Bardolfo Pistola e Cajus sono pessimi come in nove Falstaff su dieci.
Elvio Giudici