interpreti W. Koch, A. Schneiber, U. Helze, K. Azesberger
direttore Kirill Petrenko
orchestra dell’Accademia nazionale di Santa Cecilia
parco della musica
ROMA - Santa Cecilia
ROMA – Non era necessario “giustificare” l’esecuzione in forma di concerto dell’Oro del Reno pubblicando sul programma di sala il testo in cui Sinopoli proclamava la pertinenza di questa scelta, anzi la sua necessità. Anche perché, a rigor di date, Wagner concepisce il Ring (nei primi anni cinquanta dell’Ottocento) nel pieno della sua polemica “antimelodrammatica” in favore di un teatro recitato da cima a fondo; i ripensamenti che lo porteranno a interrompere qualche anno dopo Siegfried e a rivedere l’impianto dell’Anello derivano dalla lettura di Schopenhauer e riguardano sostanzialmente il tema della negazione della volontà e della rinuncia, incarnato da Wotan. La rivelazione “metafisica” del suono orchestrale come origine autosufficiente di tutto, data invece al 1870, con il saggio dedicato a Beethoven. Molto più tardi, dunque. È vero, Wagner confesserà di voler rendere la “scena invisibile”, dopo aver sprofondato l’orchestra nel golfo mistico lontano dagli occhi degli spettatori. Ma forse perché il teatro del suo tempo, ingenuamente realistico, gli proponeva soluzioni deprimenti, come gli dei con corna e pellicce. Indigeribili non solo per lui.
Tutto questo per dire che l’Oro del Reno a Santa Cecilia si ascolta per quello che è: un’occasione per concentrarsi solo sulla musica, in una fruizione appagante ma parziale. E questo vale soprattutto quando sul podio c’è un direttore, Kirill Petrenko, di classe superiore, pronto a vivificare e “teatralizzare” ogni centimetro della partitura: i momenti puramente strumentali, nel loro passo incessante ma continuamente variato, raccontano più delle didascalie proiettate sui display, e chiamano a gran voce la scena. Come nella strepitosa discesa nel Nibelheim, in cui fanno musica perfino le incudini percosse e modulate dal fortissimo al pianissimo. Merito di un’orchestra ceciliana incerta solo negli accumuli sonori del Preludio, tenuto piano e senza crescendo da Petrenko, ma poi ineccepibile nell’insieme come nelle parti solistiche. Una sorpresa il Wotan di Wolfgang Koch, più cantato che declamato, così come l’Alberich di Andreas Scheibner; mentre il Loge di Peter Galliard è solo “caratterista”. Petrenko fa cantare Erda sottovoce e dalla galleria frontale: bell’idea, ma quella di Andrea Bönig non ha “corpo”. Bene gli altri.
Andrea Estero