La voix des Rêves
controtenore Philippe Jaroussky
direttori vari
orchestre varie
dvd o cd Virgin 6026659
A dispetto delle cocorite nostrane gracchianti con la bava alla bocca all’indirizzo della pratica controtenorile che a sentir loro attenta alla sacra virtù delle Horne, Sutherland e compagnia (che si difendono benissimo da sé, posto lo volessero; del che è lecito dubitare, stante le lezioni che volentieri la Horne ha impartito e impartisce a fior di controtenori moderni), la voce di controtenore “vive e lotta con noi”: tra esse, quella di Philippe Jaroussky è delle più emblematiche, quindi delle più discusse.
La più schiettamente sopranile, con ogni probabilità, nell’estrema chiarezza e luminosità, da vero angiolo cantore: cantore provetto, dotato di musicalità portentosa al pari del controllo assoluto di un’emissione che dell’uguaglianza, della scorrevolezza, della liquida sgranatura virtuosistica, della lunghezza dei fiati, della continua pulsione dinamica, ha fatto altrettanti punti di forza. Nel portare tali caratteristiche sul piano espressivo, com’è ovvio ne fa sortire personaggi che per forza di cose privilegiano la dolcezza e l’estenuazione languorosa, assai riducendo quella carica d’ambiguità che l’antica destinazione ai castrati spontaneamente le conferiva. È il motivo per cui, personalmente (ma è parere del tutto soggettivo, da prendere dunque per quel che vale), non è il mio interprete d’elezione per personaggi quali il Nerone monteverdiano o il Rinaldo händeliano: ma lo è, senza riserve, per altri quali Ariodante, Ottone, Sesto, per tacere di quell’assoluto capolavoro che ha sapute creare quando con Christie ha ridato vita al Sant’Alessio di Stefano Landi, nonché della lunghissima serie di concerti, nei quali la collaborazione con l’Ensemble Matheus di Jean-Christophe Spinosi, con L’Arpeggiata di Christina Pluhar o con l’Ensemble Artaserse da lui stesso fondato, ha riscosso successi memorabili in tutta Europa, beninteso Italia esclusa giacché il masochismo italico è pari solo alla cronica arretratezza culturale.
Esempi di tali concerti compongono la locandina di questo dvd (del quale esiste anche una versione cd): due ore e tre quarti letteralmente sature di meraviglie. Puramente musicali, come il sublime duetto “Son nata a lacrimar” dal Giulio Cesare (straordinaria Anne Sofie von Otter, lancinanti gli archi del Concert d’Astrée sotto l’intensissima guida di Emmanuelle Haïm); come una portentosa “Oblivion soave”; “Lasciate Averno”, dall’Orfeo di Rossi, è una gemma inaspettata, tutte le esecuzioni precedenti non avendo reso che una pallida idea di tale livello musicale. Ma ci sono brani che pur possibili solo in sede concertistica, si mutano in puro diletto teatrale. Come quando una divinissima Marie-Nicole Lemieux compare inaspettata a cantare il secondo verso d’ogni strofa di “Nel profondo cieco mondo” dal vivaldiano Orlando furioso, dando luogo a un’elettrizzante gara di bravura in cui l’uno tenta di sopraffare l’altra: ed è come se la Horne si battesse fuori dai denti per esorcizzare l’avanzata d’un aborrito controtenore, pian piano guardato con interesse, poi con simpatia, poi allacciandosi in un esultante inno al canto (vi prende parte persino Spinosi, producendosi in una nota profondissima!) salutato da ovazioni da stadio mentre Jaroussky pare battere in ritirata davanti a una radiosa Lemieux perché, si sa, la Gran Diva in fondo non può esser che donna. Altro brano strepitoso, una Ciaccona di Paradiso e dell’Inferno, di anonimo, con Jaroussky impegnato a elencare le meraviglie del primo, mentre due strumentisti dell’Arpeggiata, stando seduti serissimi coi rispettivi strumenti in grembo, gli replicano deprecando i fastidi del secondo con voci cavernose e, quantunque stramusicali, non impostate (ecco cosa davvero significa stare all’Inferno!), e allorché lui allude all’eterna luce degli Elisi, inforcano due spessi occhiali da sole: teatro, insomma, accolto da iradiddii d’applausi.
Ancor più scroscianti quelli al termine dell’esilarante Le lion est mort ce soir di Salvador, cantato a cappella coi quattro del Quatuor Ebène, il cui violista espone con magnifica voce baritonale da consumato chansonnier il primo verso delle varie strofette, cui gli altri tre replicano in controcanto vocalizzato mentre Jaroussky volteggia alle alte quote, in un capolavoro d’ironia, leggerezza, impertinenza e, come si può ben capire, di sopraffina musicalità. Subito dopo, i quattro tornano ai loro strumenti ed è quindi con accompagnamento d’un quartetto d’archi che udiamo la sublime “Lascia ch’io pianga” di Rinaldo, in cui certo Jaroussky non potrebbe interpretare Almirena, ma in concerto sì, ed è una meraviglia. Ha cominciato a far musica suonando il violino, Jaroussky: e lo faceva un gran bene, a giudicare dal Preludio per due violini e piano di Sostsakovic, dove si produce in coppia nientemeno che con Renaud Capuçon, laddove col fratello Gautier al violoncello aveva distillato una meravigliosa Élegie massenettiana.
Conclusione elettrizzante, con Jaroussky scatenato ancora in coppia con una scatenatissima Lemieux: “Sento un certo non so che” dalla Poppea di Monteverdi e “Lacrimosa beltà” di Sances diventano jam session barocca, dove l’improvvisazione estemporanea dilaga dalle voci agli strumenti e ritorno, con tutti che cantano, suonano e recitano, esempio perfetto di quanto il repertorio barocco sia (o meglio possa essere, là dove non lo si vuole sentire attraverso muffiti reperti discografici bensì nel vivo dei teatri e, vivaddìo, anche delle sale da concerto) il repertorio più moderno che c’è: e alla fine, com’è sacrosanto, la sala del Festspielhaus di Baden-Baden è in standing ovation.
Elvio Giudici