interpreti P. Domingo, V. Villarroel, G. Yurisich, M. Lanza, D. Cangelosi
regia Franco Zeffirelli
orchestra e Coro dell’Opera di Washington
direttore Leonard Slatkin
1 dvd Warner
Zeffirelli e Pagliacci: una identificazione che, come per Bohème, ha lasciato un segno indelebile nella storia del teatro d’opera. Tra l’altro, l’approdo al film, nel 1982 (direzione sfortunatamente pesante di Prêtre), non ha impedito allo spettacolo concepito per il palcoscenico di continuare la sua immensa fortuna. È infatti un fiore all’occhiello del ricco archivio del Metropolitan, dove spiccano due edizioni, una con Domingo e l’altra con Pavarotti, sempre con Teresa Stratas. La ripresa di Washington (1997) non dice nulla di nuovo a quanto già consegnato alla storia: a ciò sia aggiunga un cast, che non è in grado di competere con altri attualmente in circolazione. Il film, invece, malgrado la sua età, è bellissimo, molto più di altri dello stesso autore. Il ruolo si attaglia a Domingo, che è un cantante-attore moderno e quindi riesce a scavare come pochi altri nell’umanità contorta e complessa di Canio, evitando il rischio di fare il verso a improponibili modelli.
Il confronto a ritroso negli anni, in video, è con il ritratto ancor più macerato e gigantesco, in una parola: epico, di Vickers, a suo modo inarrivabile nel film di Karajan (Dg); più in là ancora, con del Monaco (da vedere: dvd Vai; da sentire: cd Decca 1953; live Arkadia con Mitropoulos) e di Corelli (da vedere: Rai 1954 Hardy Classics, con Tito Gobbi, Tonio istrionico; in cd: Emi), dove però il segno del tempo, a causa dei due colossi prima nominati, mi sembra sia passato in modo inesorabile. Altro è il giudizio vocale: è difficile restare indifferenti di fronte alla massa d’urto bronzea di del Monaco, ancorché molto a senso unico nell’insistere ossessivamente sul dramma della gelosia e della follia, e allo squillo lucente di Corelli, più elastico dell’altro nel comporre un ritratto più variegato e meno cupo. Siamo, comunque, di fronte a due irripetibili modelli di canto. Del pari irripetibile, comunque, e anzi ancor più affascinante, perché più completo nel toccare le varie corde del personaggio, è il filone tenorile che, senza passare sopra alla congenita violenza e alla rabbia impulsiva di Canio, ne nobilita il carattere: qui, senza scomodare grandi nomi del passato più remoto, vengono alla mente la tersa compostezza di Björling (Rca), e soprattutto il doloroso lirismo di Bergonzi e Pavarotti. Il disco del primo con Karajan (Dg) è uno di quei classici che non ci si stanca mai di ascoltare: un’orchestra (quella scaligera) che, sotto una concertazione ribollente e di infinitesimale caratura, asseconda il canto e lo conduce ad esiti ben lontani dalla piatta routine, sfruttando la tavolozza di colori di Bergonzi, ma anche di Taddei, Tonio spettacolare: il suo “nido di memorie”, insieme all’ironia, alla calma insinuante, alla sofferenza tesa come una corda di violino dell’altro sono momenti indimenticabili. La partita dei tenori, negli ultimi anni, se la sono comunque giocata Domingo e Pavarotti. La bruciante passionalità del primo recupera molti aspetti dell’approccio drammatico del filone più verista, ma in un contesto molto più moderno, tanto più nella splendida regia neo-realistica di Zeffirelli (qui sì veramente grande), dove la ricchezza caleidoscopica dei colori non va a discapito della crudezza della vicenda, ma al contrario la esalta, la rende palpabile: qui c’è vera miseria, pura forza di sensi repressi, ansia nevrotica di libertà, costrizione che pesa come un macigno, disillusione che schianta, raccontata da una gestualità di estremo dinamismo, complice anche una Nedda (è la Stratas, notoriamente eccezionale come artista, ancorché discutibile come cantante) che non teme i primi piani di un volto dove passano mille pensieri. Ma anche Pavarotti, già superbo protagonista di due edizioni in disco (grande attrattiva del cd Decca la presenza di Mirella Freni, del cd Philips la direzione di Muti) dove faceva emergere una linea di canto purissima e interiorizzata, lascia una traccia indelebile, nella stessa produzione ripresa al Met (Dg): vedere per credere la sconvolgente scena finale, che contiene la più straziante e commovente confessione d’amore di Canio, prima della discesa nel delirio. Il teatro, naturalmente, non si ferma: non si può allora non citare almeno lo spettacolo zurighese (2009) di Asagaroff (dvd Arthaus Musik), che punta sul sex appeal della Nedda quanto mai conturbante e determinata di Fiorenza Cedolins che più italiana non si può (anche nel canto di alta scuola) e nel Canio più fragile e tormentato che mai (nonché, in questo caso, attaccato alla bottiglia) di José Cura che ha fatto di questo ruolo un punto di forza della sua carriera. Il canto sarà certo non esente da difetti, ma il carisma è debordante, sicché è ancora lui il polo d’attrazione dei Pagliacci messi in scena da Martone alla Scala nel 2011 (una squallida periferia urbana dove si recita sotto un cavalcavia), nei quali il palcoscenico trovava efficace prolungamento in platea (ed efficace rimando nella direzione di Harding). Doti che risaltano meno in disco: e infatti nella edizione Decca diretta da Chailly con il Concertgebouw di Amsterdam (magnifica direzione, di una trasparenza e una leggerezza inaudite) ad emergere sono la Nedda sensuale e morbidissima di Barbara Frittoli, il Silvio magnetico e delicatissimo di Keenlyside e il Tonio squillante e amaro di Álvarez.
Giovanni Chiodi