interpreti A. Schager, M. Uhl, A. Denoke direttore Stefan Soltesz regia Hugo De Ana teatro dell’Opera
ROMA – In un bicentenario wagneriano diviso tra pochi Ring e un fiume di Olandesi, l’unica proposta italiana intrigante viene dall’Opera di Roma. Anche perché l’aver ridotto il giovanile Rienzi a durate compatibili (col taglio della pantomima, di alcuni cori e di una manciata di dialoghi e momenti solistici) è un peccato grave, ma tutto sommato perdonabile. È vero: l’“opera romana” di Wagner (rievoca le imprese di Cola di Rienzo, “ultimo dei tribuni”, contro lo strapotere della nobiltà) è di fatto un grand opéra. Guarda ai modelli operistici francesi, che Wagner considerava più pregnanti e teatrali di quelli italiani. E infatti a rievocare la vicenda di un nuovo Masaniello, molto simile al protagonista dell’ammirata Muette de Portici di Auber, non mancano cori, marce, scene liriche e sontuosi “tableaux vivants”. Anche i momenti deputati ci sono tutti: l’acclamazione del capopopolo, le scene di festa, le trame dei congiurati, il voltafaccia degli amici, il canto lugubre dei monaci, l’amore non corrisposto. Però. Oltre a essere “große”, grande, l’opera voleva essere anche alta e “tragische”. E infatti ci sentiamo una nobiltà e una “serietà” beethoveniana che manca ai corrispettivi parigini. E poi Rienzi è un idealista, eroe “puramente umano” come i suoi successori, e anche un po’ fissato. Non per niente l’opera fu scritta e ultimata quasi contemporaneamente all’Olandese, rappresentato solo un anno dopo. Tutto questo per dire che dell’attenuazione del gusto francese, con tutti i suoi orpelli e decorazioni, ce ne potremmo fare una ragione. E d’altra parte Stefan Soltzes riesce a rendere bene il senso di questo Wagner bifronte, fregandosene di ripristinare i “francesismi” di facciata e andando al cuore del dramma serrando la fila di una struttura composita, da stringere e avvitare senza comprimerla. Solo che poi l’orchestra non è sempre convincente, gli ottoni scrocchiano troppo, il coro non avanza compatto. E tra i cantanti “manca” proprio Adriano, il giovin signore curiosamente “en travesti” che ama Irene, la sorella di Rienzi, e che per questo tradisce la sua famiglia, per poi giurare vendetta allo stesso tribuno: l’unico personaggio complesso e sfaccettato ha qui la voce stimbrata e stanca di Angela Denoke. L’Irene di Manuela Uhl non s’impone, ma questo anche a causa di Wagner. Alla fine il migliore in campo era Andreas Schager, un Rienzi che nonostante le sbandanti oscillazioni dell’esordio sapeva scalare le massacranti vette della parte.
Lo spettacolo è un De Ana d’annata: bello nella rievocazione monumentale di una Roma senza tempo, con personaggi dalla gestualità storica e a tratti stilizzata ridotti a nani di fronte alla grandezza della Colonna traiana, del Campidoglio o del portale del Pantheon, riprodotti con certosina fedeltà e dispiego di risorse e mezzi. Ma forse sbagliato nella “morale”: Rienzi è per quel Wagner – e per tutta una serie di scrittori e poeti a lui contemporanei – il simbolo della libertà attraverso la rivoluzione, contro potenti e sfruttatori. È l’intrepida Germania, generosa e sognatrice, che parla. E invece le immagini di soldati novecenteschi nei video che scorrono audaci e seduttivi, ci vogliono convincere che dietro quell’eroe ci sia un grande dittatore. In Germania lo fanno come Hitler (che d’altra parte si portò nel bunker la partitura dell’opera): un perverso conquistatore del mondo. E in Italia, all’Opera di Roma, come gli va a finire? Appeso, con Irene a testa in giù, come a piazzale Loreto.
Andrea Estero