Mahler – Sinfonia n. 9

direttore Gustavo Dudamel
orchestra Filarmonica di Los Angeles
2 cd Deutsche Grammophon 4790924

 

gustavo-dudamel

Qualche anno addietro ebbi il mio primo (e finora unico) contatto dal vivo con Gustavo Dudamel, allorché il giovane venezuelano diresse a Santa Cecilia la Terza di Mahler, e ne trassi riflessione inusitata: a costui sembrava interessare un rapporto con la musica alieno da superfetazioni divistiche, ossia l’esatto contrario di ciò che avevo previsto. L’attuale incontro, stavolta discografico, mi conferma nella convinzione che, per variabili che siano umore di chi giudica ed eventuali cadute in repertori non propriamente affini, Dudamel mostra un’invidiabile consentaneità naturale col dettato mahleriano. Nell’approccio a un test problematico quale la Nona ravviso che egli pare averne còlto con bella lungimiranza l’arcano segnale di trapasso dalla musica come evento “narrato” a quello della musica come evento “ricordato”. Alla ricetta ormai insoffribile del Mahler diviso tra vecchio e nuovo se ne contrappone dunque una assai più stringente, che sintetizza l’anomalia sintattica del sinfonismo di costui quale estremo lascito di una condizione di inattualità che non gli concesse di saltare il fosso pur avendone intravisto le soglie. Ed è interessante notare come lo scompaginamento dei nessi connettivi vada registrato dall’interprete sin negli interstizi minimi della partitura, sin nelle pause, sin nei silenzi che vengono assunti tutti al ruolo di “musica” alla ricerca di un costrutto perduto. Ascoltare la rarefazione fonica del finale dell’Andante comodo, ovvero la valorizzazione del timbro come entità strutturale, induce allora a credere che la mano di Dudamel sia qui guidata dall’intelligenza dell’idea assai più che dall’edonismo del suono.
Una bella mano d’ausilio la dà al direttore la prestazione sovrana della L.A. Philharmonic, e basterebbero a confermarlo l’elegante aura di meditazione che gli archi della compagine americana riescono a evocare nella trama del conclusivo Adagio, o, per contro, il memorabile, quasi scarnito a solo del primo flauto che chiude l’Andante comodo. Quando càpita di prender contatto con queste insigni orchestre d’America e d’Europa, t’accorgi che, per ottime che possiamo reputare tre o quattro delle nostre, siamo ben lontani ancora da siffatto professionismo. Ma del resto, diciamocelo, perché dovrebbero eccellere le nostre formazioni se nulla, fuor che gli stilisti e i vigili del fuoco, ci sembra oggi eccellere in Italia?
Aldo Nicastro

 

 


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