Se è vero che “La Traviata per Italia è come la Sacra scrittura”, parola del regista della prima alla Scala, Dmitri Tcherniakov, il “verbo” verdiano, tanto per restare nella metafora, deve farsi “ecumenico” nell’era della globalizzazione. Tanto più se lo spettacolo del 7 dicembre al Piermarini sarà visto in diretta su piccoli e grandi schermi anche in paesi nei quali l’opera di Verdi potrebbe apparire una novità più o meno assoluta. Ma il regista russo non si fa trovare impreparato. Fra le motivazioni annunciate, le più inaspettate fanno bene alla musica.
Tcherniakov, per esempio, ha pensato Traviata “come spettacolo da camera, così da avvicinare al massimo la scenografia agli spettatori. Dato che La Scala ha una sala immensa”, ha spiegato, “ho sentito la necessità di abbracciare tutti quanti, anche i più lontani, in modo da creare una sensazione di interattività e infrangere il muro tra chi è in scena e chi vede e ascolta. Permettendo di cogliere meglio i dettagli e le nuance della recitazione”. Ma facciamo un passo indietro nel tempo.
“Quando apparve Traviata”, ha proseguito il regista, “per l’epoca era cosa inaudita, rivoluzionaria. Da allora sono passati 160 anni e la percezione è cambiata, con una cadenza di 10 o 15 anni alla volta. Della prima veneziana del 1853 si è persa la veridicità. Attualizzare ai nostri giorni, tuttavia, non significa descrivere la realtà contemporanea quanto piuttosto puntare a mettere in primo piano i personaggi. La mia messinscena è ambientata solo in spazi interni. Se prendiamo i film di Fellini, vediamo la vita in esterni. In quelli di Bergman, come in questa mia regia, ci si concentra sulle relazioni, sull’interiorità”.
“Nel XX secolo abbiamo conosciuto tante cose più del pubblico ottocentesco”, prosegue Tcherniakov, “siamo molto più scaltri. E poi oggi sappiamo già troppo sull’opera a differenza del pubblico che vide Traviata la prima volta. Con tutta questa esperienza emotiva oggi si legge questa trama. Chi sta in platea deve percepire i personaggi come soggetti che lo riguardano direttamente, che lo rappresentano: lo spettacolo deve ‘colpire’”.
“Il tema più importante”, continua, “è il rapporto che ciascuno di noi ha con l’amore. Le questioni sociali le abbiamo messe un po’ in ombra. Oggi sono assai relative: come si fa a dare giudizi sulla protagonista in tempi in cui tutte le persone ragionano più o meno così? Io non giudico mai i personaggi, anche i più terribili. Non è una forza esterna che distrugge l’amore di violetta e Alfredo. Nel legame stesso c’è indecisione”.
“In ognuno dei quattro atti”, prosegue Tcherniakov, “Violetta è completamente diversa. Gli interni sono lussuosi comò lo potrebbero essere ai tempi d’oggi. Ma la modernità non è tema di nostro interesse. Lo è l’amore. Il conflitto non è tra bene e male, ma si consuma interiormente. Perché le persone non possono essere felici? Perché l’amore non dura in eterno? Perché quando c’è una passione così forte non dura? Ecco le domande che mi pongo con la regia”.
Significativa della cura dei dettagli sui quali ha costruito la regia di Traviata Tcherniakov è infine l’aggiunta, verrebbe da dire apocrifa, di un momento che non c’è nel libretto: “Quando Violetta riceve l’invito di Flora, e dice al padre che rinuncia ad Alfredo, lascia volutamente sul tavolo l’invito (ecco l’aggiunta, ndr) in modo che lui possa trovarla, in una continua spinta a rivedersi con Alfredo. Anche la malattia è una forma di ossessione per lui, una forma di ricatto che innesca un senso di colpa”.
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