Lo aveva intuito Theodor Adorno, prima di chiunque altro: “L’opera lirica è divenuta problematica non solo, come si potrebbe pensare, all’interno dei prodotti e nell’evoluzione del gusto compositivo: la permanente crisi dell’opera si è ormai palesata come crisi della ‘rappresentabilità’ delle opere”. Che cos’altro doveva fare l’ennesimo Alfredo perché si parlasse di lui? Stendere la pasta col mattarello, tagliare fini fini le zucchine e il sedano e preparare un tortino vegetariano per la sua Violetta. Così è successo, anche al di là delle migliori previsioni: ne hanno parlato tutti, salvando dalla routine, grazie alla prova del cuoco, la Traviata che ha inaugurato la nuova stagione della Scala.
La migliore controprova al valore decisivo raggiunto dalla regia quando si mette in scena un titolo del repertorio più conosciuto, l’abbiamo avuta dall’Ernani diretto da Riccardo Muti a Roma. Lo spettacolo è finito presto sotto la linea dell’orizzonte, scomparendo. Eppure, Muti ha ben alternato furore ed eleganza, estraendo tutte le (ancora poche) perle da una partitura che ci aiuta a capire quanto profondo sia stato il percorso di Giuseppe Verdi verso la definizione di uno stile più personale e più meditato. Ma la regia di Hugo De Ana semplicemente non c’era. Una scena fissa, uno scialo di costumi e di inutili figuranti che un teatro sommerso dai debiti non dovrebbe permettere e permettersi, cantanti abbandonati a se stessi in pose involontariamente comiche, lontane da ogni credibilità drammatica.
Il contrario di quanto realizzato da Cherniakov alla Scala: i suoi cantanti non sono icone vocali, ma personaggi. Spesso sopra le righe, sovraccarichi di gestualità, anche nei momenti in cui l’azione deve arrestarsi e cedere ogni protagonismo alla musica, perché un’opera lirica non è uno spettacolo di prosa e nel canto vive sempre una fortissima teatralità, affidata alla voce e alla sua infinita gamma di espressioni. I limiti all’intervento di un regista sono ben definiti da questa recente osservazione di Romeo Castellucci: “Esistono due limiti. Chi affronta una regia deve sapere che in un’opera lirica, rispetto al teatro di prosa, vengono enormemente potenziate dalla musica la qualità emotiva e la gabbia temporale, cioè il tempo psicologico. A teatro posso modificare il tempo come voglio: rarefarlo, accelerarlo, in un’opera musicale no. E il tempo sta al regista come la pietra allo scultore, il colore al pittore. Per il resto, la regia è un immenso campo di battaglia dove bisogna conquistare il proprio spazio di manovra”. Con altre parole, Castellucci sembra concordare con la definizione di “drammaturgia musicale” cara a Carl Dahlhaus: “La tesi è questa: in un’opera, in un melodramma è la musica il fatto primario, che costituisce l’opera d’arte (opus) e la costituisce in quanto dramma”. Tesi opposta alla persuasione di Luciano Berio: “Il tipo di razionalismo critico che Brecht, col suo teatro epico, sovraimpone alla scena e al rapporto scena/pubblico, contro un’idea di teatro illusionistico e consolatorio, implica una autonomia dei livelli espressivi e di tutti gli elementi della rappresentazione. La musica vi ha un ruolo fondamentale, soprattutto quando contribuisce, con la sua autonomia, condivisa peraltro dagli altri elementi scenici, ad interrompere lo svolgimento dell’azione, ad alienarla”. Come dirà Peter Sellars: “In scena deve vivere una democrazia della rappresentazione tra i diversi elementi che compongono lo spettacolo”. Tra direttore e regista, il sovrintendente della Scala, Stéphane Lissner, ha scelto il secondo: si fa come vuole lui. E così il maestro Gatti, che ha proposto una lettura musicale di profonda intimità, si è reso conto che il teatro aveva applicato anche al melodramma una verità ormai lampante nel campo delle arti visive: l’opera d’arte contemporanea è performance, trovata, evento, decorazione, installazione, gioco e giocoleria. Gesto, anche gratuito. L’opera d’arte vive se, prima di tutto, si presta a diventare critica d’arte. Per far esistere nel 2013 una partitura nata nel 1853 è necessaria una metamorfosi. Tuttavia, a differenza di un quadro di Jackson Pollock o Francis Bacon, Traviata non si può appendere alla parete di un museo: l’apprezzamento del mercato si valuterà non in milioni di dollari, ma in contatti e di chiacchiere. Questa Traviata ne ha avuti tantissimi.
Anche il nuovo Ring allestito a Bayreuth per i duecento anni della nascita di Wagner, ha confermato il principio. Il regista Frank Castorf si è persuaso che, oggi, l’oro bramato dai protagonisti della Tetralogia sia il petrolio: il Walhalla può dunque essere rappresentato da un motel che si affaccia su una pompa di benzina, mentre sullo sfondo sfiammano i fuochi dell’oro nero, sotto il sole del Texas. E l’acqua del Reno? Inessenziale. Anche questo allestimento fa comprendere la differenza tra “teatro di regia” e “teatro di concetto”: il secondo è schematico, il primo plastico; il secondo monarchico e sordo, il primo democratico e in ascolto della drammaturgia della voce e del canto, della loro “qualità emotiva”. Il Ring di Boulez-Chéreau (1976) era regia, non concetto. Era concetto quello firmato (2000) Jürgen Flimm che chiede a Brünnhilde, nel finale del Crepuscolo degli dei, di uccidere Hagen mentre in orchestra dilaga il motivo della redenzione d’amore, generando due blocchi semantici contrapposti. Scelta contraria alle intenzioni della musica, fedele a un autonomo impianto narrativo.
Difendere la tradizione italiana, rispettare la musica! Così hanno invocato i puristi dopo i tortini scaligeri di Alfredo: specchio opposto e complementare dei difensori ad ogni costo dello spettacolo e della sua asserita modernità. I partiti presi, e persi. Quale tradizione? Visconti e Strehler, o quella di Zeffirelli e Pizzi, che veri registi non sono mai stati, piuttosto lussuosi scenografi? Comunque non clonabili, come ogni artista che vive della propria irripetibile individualità. Oggi, è impossibile riconoscere una griffe italiana in uno spettacolo d’opera. Che cosa c’era di tipicamente italiano nel Ballo in maschera di Damiano Michieletto che – oltrepassando i furori del pubblico, ancora una volta milanese, scaligero e scandalizzato – ha ottenuto il riconoscimento della critica italiana come miglior spettacolo verdiano del 2013? Onestamente nulla, anche se il regista è persuaso che “certe stoffe, certi gesti, certi colori, certe scene rivelino ancora una storia italiana”.
Per il futuro dunque ancora e nient’altro che tortini e soufflé, se i teatri italiani non cambiano passo. Se non comprendono che è suicida rinunciare al confronto vero con la contemporaneità. Se non ritornano a commissionare nuove opere ai compositori di oggi, se non la finiscono di nascondersi dietro al paravento del repertorio “più amato dal pubblico” che cela soltanto il timore di osare e di difendere le proprie scelte. Osservando i cartelloni delle nostre Fondazioni liriche, è desolante l’ovvietà della programmazione, la prevalenza del prevedibile. Che cosa s’inventerà il prossimo Alfredo per sedurre Violetta?
In alternativa, per i prossimi almeno tre anni, si propone una moratoria: niente più regie, solo spettacoli in forma di concerto. Un digiuno, un’assenza. Un white-painting di Rauschenberg applicato al melodramma. I bulimici potranno soddisfare la loro fame con altri supporti, tenendo accanto al lettore dvd questo santino di Luca Ronconi: Maestro, è sempre convinto che il principale merito storico dei registi sia quello di aver prolungato di cinquanta anni l’agonia del teatro d’opera? “Più che mai. Ma non uso, e non usavo, il termine agonia in senso peggiorativo. L’agonia a volte è selettiva e questa selettività garantisce a ciò che veramente vale di rimanere”. Sandro Cappelletto
Feb72014
Croce e REGIA
Tutti hanno parlato della “Traviata” alla Scala, nessuno dell’“Ernani” di Muti. Pare che oggi un allestimento valga per le trovate sceniche. Lo scrive Sandro Cappelletto. E voi che ne pensate? Dite la vostra lasciando un commento