interpreti A.C. Antonacci, D. Barcellona, G. Kunde, M. Rudner, F. Capitanucci direttore Antonio Pappano regia David McVicar teatro alla Scala “La proposta di David McVicar, regista inglese molto reputato e molto professionale, rivela un equivoco di fondo: una spettacolarità grandoperistica e una drammaturgia di tipo verdiano che si direbbe prossima al Don Carlos. Quanto di più estraneo all’aulico pensiero di Berlioz”
MILANO – Anche dopo la veemente demolizione di Boulez, che però come direttore è stato tra i primi a riproporre integralmente il dittico Sinfonia fantastica e Lelio, il caso Berlioz è aperto alla discussione: rifiuti, spesso di impronta accademica – l’ortodossia dell’analisi armonica – o esaltate ammirazioni. I Troiani, opera eterodossa e solitaria, possono essere letti come un bassorilievo retrospettivo o come apertura alla modernità. Tra i problemi centrali il rapporto con il romanticismo: Confalonieri ritiene Berlioz, Chopin e Liszt “romantici integrali” mentre d’Amico considera il compositore francese estraneo al romanticismo, precorritore del neoclassicismo novecentesco. Nulla da obiettare sulle profezie debussiane e raveliane, ma l’ipotetico diniego del romanticismo è circoscritto, in questo creatore di miti edenici, alla presa di distanza dall’ansietà funeraria austrotedesca e dal melodramma italiano. La lettura di d’Amico, tuttavia, ci induce a riflettere sulle modalità esecutive. La proposta di David McVicar alla Scala, regista inglese molto reputato e molto professionale, rivela un equivoco di fondo: una spettacolarità grandoperistica e una drammaturgia di tipo verdiano che si direbbe prossima al Don Carlos. Quanto di più estraneo all’aulico pensiero di Berlioz. I rapporti dell’autore con il grand opéra sono ambigui. Permangono la struttura in cinque atti e i quadri coreografici, ma l’impaginazione storica è abbandonata in favore della memoria mitica. Il “teatro immaginario”, che è d’obbligo citare, corrisponde a una idea molto moderna, al limite “invisibile”, del teatro. Non a caso le didascalie del libretto omettono persino la raffigurazione distruttiva del cavallo di Troia. Deliberata e geniale l’incoerenza narrativa dell’opera. Spezzata la linearità drammaturgica del racconto, ne esce una abnorme discontinuità. Laura Cosso, nel bel volume-programma scaligero, afferma acutamente che ciò dipende dall’aspetto innovativo del libretto.
Si ripensa alle regie decisive: alle memorie classiciste di Ronconi, un trentennio fa alla Scala, o all’astrazione coloristica di Wernicke a Salisburgo. McVicar invece ribadisce le convenzioni della macchinosità illustrativa, con un mostro che sembra uscito dall’epica televisiva. Le coreografie sono di un datato gusto divulgativo; i costumi manipolazioni ottocentesche. La fastosa e monumentale concezione scenografica di Es Devlin si identifica con le idee del regista: a loro modo coerenti, ma ignare del clima culturale parigino.
Berlioz evoca in una astorica lontananza la voce del mito. È quanto ha compreso Antonio Pappano, ricreando i lucenti decorsi della superba fantasmagoria orchestrale: una direzione antiretorica nella limpida definizione timbrica. Il momento interpretativo più emozionante si ritrova nel quart’atto, tra i culmini del teatro ottocentesco, ove Pappano rivela l’estasi amorosa con sensitiva sottigliezza, quasi si cogliesse in controluce l’incanto notturno del Conte Ory rossiniano: la grazia come categoria dello spirito.
La vocalità dei Troiani talvolta ricorre ad uno stile declamatorio scarnificato e fortemente cherubiniano (“extraterritoriale” alla musica, lo direbbe Boulez); tuttavia particolarmente toccante quando la recitazione si risolve nell’appello lirico. Di qui la difficoltà di scavare questa dualità del canto. Anna Caterina Antonacci, Cassandra, evita l’accento scolpito e piega una scelta prevalentemente intimistica a sensibili risonanze interiori. Daniela Barcellona è più prorompente nella scansione della parola. Nonostante l’evidenza drammatica il suono è sempre controllato, secondo una disciplina belcantistica che è all’origine della sua formazione. Imperioso Gregory Kunde nell’opaco eroismo di Enea; nella grande aria di addio il tenore sottolinea anche levigate dolcezze. Compagnia sterminata e affiatata, ad eccezione del tiepido mezzosoprano Maria Rudner come Anna. Il coro diretto da Casoni realizza felicemente le immense campiture musicali, che costituiscono l’aspetto più restaurativo dell’opera. Nel complesso uno sforzo produttivo enorme per un impervio capolavoro.
Mario Messinis