interpreti L. Lindstrom, M. Berti, E. Nakamura, R. Aceto direttore Henrik Nanasi orchestra teatro Covent Garden regia Andrei Serban regia video Ian Russell formato 16:9 sottotitoli It., Ing., Fr., Ted., Sp.,Cor. dvd Opus Arte 1132 prezzo € 25,80
Verso la fine degli anni Ottanta, e poi via via intensificandosi lungo i Novanta, s’era avviato un attento riesame della drammaturgia dell’opera, mirato a scrostare la vernice luccicante della fiaba, giustificativa d’allestimenti tesi a illustrare un libro per bambini e il cui valore dipendeva solo dal budget del teatro e dal (raro) buon gusto di scenografo e costumista. Cominciarono quindi ad emergere i molti inquietanti interrogativi posti da una protagonista bloccata nella sua crescita in uno stadio di adolescente nevrotica che condivide con parecchie disturbate sorelle, a partire da Salome ed Elektra, con Mélisande che occhieggia dalla sua foresta dove è andata a nascondersi così come Turandot si nasconde dietro il luccicare ingannevole delle pietre dure, dei ghirigori dorati, dei draghi dalle fauci spalancate.
Due le pagine fondamentali di questo voltar pagina: la regia di Carsen ad Anversa, e questa di Serban a Londra. Nata quest’ultima, a vero dire, nel 1984 al Dorothy Chandler Pavilion di Los Angeles in occasione delle Olimpiadi, direttore Colin Davis, protagonisti Gwyneth Jones e Placido Domingo. Lo spettacolo venne poi logicamente rimontato al Covent Garden, e in occasione della ripresa del 1987 la Bbc realizzò per la prima volta nella sua storia un collegamento in diretta con un teatro lirico, riuscito molto bene: da allora, lo spettacolo è restato sempre in repertorio, ed è quello ripreso adesso.
La scena riproduce grosso modo il Globe: anfiteatro ligneo con due balconate, pavimento di terra con passerelle di legno. E basta. Luogo teatrale, quindi. Il Globe si pechinizza con l’entrata alla spicciolata nelle due gallerie di coristi-pubblico col viso coperto da una maschera rossa, mentre sul palcoscenico coperto di terra si siedono contro le pareti a emiciclo un gruppo ridotto di mimi mascherati anch’essi. Piantati a terra, quattro pali reggono altrettanti mascheroni, dalla fisionomia marcatissima. Il primo atto, che è in sostanza un lunghissimo rituale, procede senza il consueto impiccio d’un coro che la scrittura prevede assai folto e che invece qui è seduto immobile nelle due gradinate in alto, col palcoscenico sgombro riservato a un prodigioso mix di tradizione cinese (pantomime e numeri acrobatici, appannaggio di danzatori-acrobati che da sempre costituiscono la spina dorsale d’ogni recita dell’Opera cinese, tutti con maschera nera o bianca sul viso) e Commedia dell’Arte (Ping Pang Pong) efficacemente stilizzata: i bastoni alludono al batoccio di Arlecchino, i vestiti sgargianti sono quelli delle figure tradizionali al pari delle maschere che coprono il viso rendendoli non personaggi ma tipi, sintesi dei sentimenti e bisogni elementari che governano il quotidiano.
Ne sorte un polistilismo che non disperde ma al contrario concentra l’immaginario teatrale. Ed ecco il Puccini di Turandot recuperare uno dei suoi agganci più sottili e tenaci: quel gusto neoclassico che a Stravinskij suggeriva di riandare a Pulcinella rielaborando la commedia musicale di Pergolesi, ma anche di declinare a modo suo la Tragedia classica con Oedipus Rex senza rinnegare quasi nulla dell’antica estetica dei Balletti Russi di Djagilev, dov’erano confluiti Musorgskij, Rimski, Ravel.
Ping Pang Pong parrebbero assumere sembianza reale perché si tolgono la maschera, ma in realtà proprio questo svela quanto la maschera sia simbolo universale: restano quel che sono, scettici depositari dei sentimenti più comuni. Siedono sui mascheroni ora poggiati a terra, e da tre bauli estraggono teli colorati, pupazzi e tre teschi coi quali dialogano come il becchino di Amleto ma anche giocano a palla, mentre servi invisibili srotolano dietro di loro un lunghissimo telo con disegni raffinatamente infantili dai vividi colori (simili in ciò ai versi che cantano): e in balconata, le ballerine anch’esse senza maschera si siedono disinvolte sulla balaustra e si rifanno il trucco.
Non c’è insomma momento di questo spettacolo che non sia teatro. Ma per una volta, Turandot non era una macchina spara-acuti bensì una psicologia. Uso il passato, e mi spiego. Dal fondo, a piedi sulla terra del palcoscenico, Serban fa avanzare Turandot: mascherina sugli occhi, lungo kimono rosso con striature nere orizzontali simili alla stretta d’un serpente, capelli lunghi e bocca a cuore, avambracci incollati al busto lievemente inclinato in avanti e mani ad artiglio protese in avanti, mai ferme per via di minuscole ondulazioni. E il silenzio invade la scena. Assordante. Tutto si concentra su quelle mani nervosissime e sugli sguardi che lei lancia furtiva a destra e a sinistra, emblema d’una nevrosi che il silenzio rende mostruosa, come se l’avanzare di quella figuretta rossa fosse lo srotolarsi delle spire d’un gigantesco pitone. Il silenzio è la prova suprema, per un attore. Gwyneth Jones era prodigiosa: la gestualità srotolata nella sua scena fu una lezione di teatro tra le più memorabili coi suoi gesti piccolissimi, gli sguardi fulminei, il ventaglio stupefacente di muscoli contratti e rilasciati. Avrebbe potuto piazzare Turandot su un lettino, Serban, e fare, chessò, del Mandarino il dottor Freud: e molti colleghi tedeschi lo hanno magari anche fatto, da qualche parte. Ma lo stesso scopo è raggiunto invece “facendo recitare”. E per giunta cantava un gran bene.
Questo era lo spettacolo originario. Qualcosa c’è ancora: restano l’impianto e diverse soluzioni figurative, quantunque prive dell’aspra evidenza con cui s’imponevano. Ma manca quasi completamente un elemento essenziale: il carisma che s’avviluppava attorno alla protagonista. Lise Lindstrom fa quel che deve con grande coscienza e professionalità, ma fa solo quel che può: purtroppo, il carisma di Gwyneth Jones era l’elemento che Serban aveva posto a fulcro del suo spettacolo, e qui semplicemente non c’è. Il lunghissimo silenzio originario, pertanto, è adesso solo una piccola pausa. “Tutt’altra cosa”, direbbe Manon.
Peccato inoltre che partitura tanto gratificante per un direttore non veda Pappano sul podio bensì l’ungherese Nánási, direttore musicale della Komische Oper di Berlino. Bravo, molto musicale, attento ai minuti dettagli ma senza una visione generale provvista d’una qualche riconoscibile caratteristica personale, e soprattutto la solita Turandot un po’ ipertrofica (un po’ tanto) nonché un po’ troppo (proprio troppo) indulgente verso colori che, per voler essere troppo sgargianti, finiscono con l’essere uniformi: a fronte d’uno spettacolo che in teoria seguirebbe invece una strada molto più analitica, introspettiva e irta di punte.
Lise Lindstrom debuttava a Londra, ma la sua Turandot aveva già alle spalle più d’un centinaio di recite. Voce molto ampia, robustissima, fermissima (un po’ fissa, come quasi sempre è il caso con voci siffatte), senza alcun problema nell’emergere sopra fiotti strumentali non importa quanto densi. Qualche tentativo di fraseggiare “In questa reggia” lo s’avverte, cercando di rendere (ah, Gwyneth…) il progressivo erodersi d’una insicurezza murata per difesa attorno a una sorta di cerimoniale: ma è solo un suggerimento, che per giunta non trova adeguato riscontro visivo nonostante l’eleganza dell’alta e slanciata figura. Restano note d’acciaio, ferme e trancianti come altrettanto laser: quanto basta per successo oceanico.
Berti grida molto, fraseggia niente, scaraventa tonnellate di decibel e amen: l’unico gesto rapportabile a una recitazione è quando alza un dito per sottolineare “uno soltanto a te ne proporrò”. Avrebbe fatto meglio a star piantato come un palo anche in questo momento. La Nakamura ha voce un poco tagliente che non è l’ideale per Liù mentre lo è l’accento, molto vibrante e intenso. Genericamente benino le tre maschere, anonimamente robusto il Timur di Raymon Aceto.
Elvio Giudici