interpreti D. Damrau, F. Demuro, L. Tézier direttore Francesco Ivan Ciampa orchestra Opéra di Parigi regia Benoit Jacquot regia video Louise Narboni, Benoit Jacquot formato 16:9 sottotitoli It., Ing., Fr., Ted., Sp. dvd Erato 0825646166503 prezzo 15,30
Rabbia nera, provoca l’idea che a documentare la grandissima Violetta di Diana Damrau possa essere questo orrendo spettacolo – punta forse la più infima dell’Opéra di Joël – anziché lo storico capolavoro scaligero di Gatti-Cerniakov. Il direttore ha un gran bel frac, un codino da sessantottino fuori corso, due bellissimi gemelli. Simpatico a vedersi. Però dirige un gran male. Pesante negli assiemi; un metronomo ingoiato e mal digerito rende artritico ogni passo ritmico; evanescente nei momenti topici, in omaggio al tappetino che per i tanti custodi del cimitero degli elefanti vocali avrebbe ad essere un direttore d’opera; dinamica niente e quindi niente colori; tagli di tutte le riprese (unica eccezione l’Addio del passato) e delle intere cabalette di Alfredo e Germont, come costumava negli anni Cinquanta.
Jacquot, pessimo regista di cinema, è il tale che s’inventò quell’obbrobrio snob di Tosca su tre piani narrativi (studio di registrazione in bianco e nero, palcoscenico a colori, esterni romani virati in seppia) col vezzo di dichiarare che “l’opera non è la mia tazza di tè”. Non aveva bisogno di dirlo, ci se ne accorge ad ogni secondo di questa schifezza. La scena è fissa, dominata da un gran letto che sulla testiera porta appesa una riproduzione della “Olympia” di Manet, tanto per comunicare al colto e all’inclita il fatto d’essere Violetta una puttana: e Annina è di conseguenza nera per farsi copia conforme della negra che nel dipinto porta il mazzo di fiori (canta anche male, ma sarebbe il meno); e manco male che non c’è il gatto nero. Il coro compare nelle due feste tutto vestito uguale, per piazzarsi immobile sul fondo chez Violetta e ammassato su una ripida scala chez Flora: comoda furbata, il travestire da idea intellettual-chic un’evidente imperizia totale nel gestire lo spazio. Le zingarelle sono drag queen e i toreri donne in pantaloni attillati che stanno pure niente bene. La campagna è riassunta in un grande albero fronzuto, illuminato peraltro malissimo. Gestualità da filodrammatica rionale, che spinge la Damrau – di solito ottima attrice – a portarsi sempre sopra le righe, agitandosi come una forsennata con braccia spalancate all’Empireo e facce stravolte da fare invidia a Baby Jane in arte Gruberova: cosa che, com’è ovvio, pur nell’ambito del canto d’alta scuola che sempre la contraddistingue si ripercuote però sul fraseggio, difatti piatto e banale, sull’altra faccia della luna rispetto alle meraviglie scaligere.
Francesco Demuro ha voce gradevole e dotata, ma non si può reggere tutto Alfredo sulla sola natura: naufraga difatti miseramente nella “borsa”, dove l’emissione – parecchio ingolata ovunque – qui s’impicca e si sfoca da paura. Ludovic Tézier è solido nel canto ma nel fraseggio è rozzo, stentoreo, monotono, insomma noiosissimo. Comprimari da spavento (un Gastone come quello sbraitato da questo Gabriele Mangione squalificherebbe anche Scurcola Marsicana, e con le arie che si danno l’Opéra e la critica francese in generale…), ma anche un regista video da superotto domenicale: comprensivo di Dama Incognita nel pubblico, ripresa di spalle quinci e quivi, forse intenta ad ammirare questo capolavoro ma forse no, magari sta schiacciando un pisolino. Ha tutte le ragioni.
Elvio Giudici