interpreti A. Harteros, J. Kaufmann, E. Semenchuk, L. Tézier, E. Schrott direttore Antonio Pappano orchestra Accademia Santa Cecilia 3cd Warner 0825646106639 prezzo 26,10
No, non è l’Aida del secolo ipotizzata dalla pesantissima campagna mediatica scatenata dall’unica recita in concerto che ha fatto seguito alle sei sedute d’incisione in studio. Rabbia nera, però: giacché direzione, orchestra, coro e protagonista maschile sono proprio da Aida se non del secolo almeno tra le due o tre che contano. Pappano coniuga in modo sensazionale il minimo particolare armonico, timbrico, dinamico, agogico, e la plastica visione d’insieme delle amplissime architetture di cui si compone l’opera: la trasparenza strumentale e il gioco sia dei rubati continui (proprio da scuola antica) sia di certe repentine sospensioni ritmiche, provvede però a scansare ogni rischio di pesantezza senza per questo privare dell’indispensabile maestosità i molti tratti esotici o celebrativi, che anzi vedono esaltata al massimo la loro sterminata tavolozza cromatica; non meno di quanto avvenga per i prodigiosi chiaroscuri su cui si costruiscono gli squarci lirici, resi anch’essi attraverso l’indagine più certosina del minuto particolare, subito tuttavia inglobato in campiture tanto vaste da abbracciare addirittura un atto intero, com’è il caso della scena del Nilo, capolavoro ottimo massimo di Pappano. Ne deriva una narrazione tesa allo spasimo lungo un arco di tensione continua, con una rispondenza tra strumentale e comparto vocale anch’esso da scuola antica.
Cosa che paga dividendi sensazionali nell’accompagnamento di Radamès, giacché Kaufmann è Kaufmann. Il timbro brunito rende tangibile la statura eroica, contraddetta però poeticamente da una miniera d’accenti tutti interiorizzati, chiaroscuratissimi (il si bemolle che onora come forse mai prima il morendo prescritto al termine del “Celeste Aida”, entra da oggi nella storia della vocalità): venendosi così a comporre un ritratto ambiguo, complesso, che per una volta rende giustizia alla straordinaria modernità d’uno dei personaggi verdiani più bistrattati e banalizzati dalla tradizione. Dividendi sostanziosi anche nel caso delle tre parti di fianco, tanto spesso così svilite: quel gioiello di declamazione melodica che è il racconto del Messaggero, Paolo Fanale lo tira a lucido al pari di quanto riesce a Eleonora Buratto per le melopee dell’invisibile Sacerdotessa; e Marco Spotti cesella alla grande gli interventi del Re.
Ma il resto latita, o quanto meno fa tornare dalle stelle alla nuda terra. Anja Harteros ci prova, a lavorare d’accento, ma le riesce solo la lagna: dizione nebulosa, registro acuto fisso, stridente, a lama di rasoio, il suo canto in coppia con Kaufmann diventa una sofferenza per via di quanto avrebbe potuto (e dovuto) essere e quanto invece s’è costretti a sentire, in omaggio al vecchio adagio che un duetto si fa in due. Ekaterina Semenchuk sarà anche mezzosoprano, ma i gravi sono gutturali, sfocati, sgradevolissimi; e gli acuti sono solo note, prive d’alcun carattere e comunque non sufficienti a fare da contraltare all’apocalittica orchestra del Giudizio. Ludovic Tézier è stentoreo, magniloquente (ma come si fa a buttar via così il serpentino “Ma tu o Re”, servito su un piatto d’argento strumentale?), noioso come la pioggia. Erwin Schrott si limita a timbrare il cartellino, e comunque è leggero leggero leggero: un Ramfis così inoffensivo, che c’azzecca con simile orchestra?
Elvio Giudici