Verdi – Falstaff

interpreti A. Maestri, F. Vassallo, P. Fanale, A. Meade, S. Blythe, L. Oropesa, C. Bosi, K. Jameson, C. Van Horn
direttore James Levine
orchestra Metropolitan
regia Robert Carsen
regia video Gary Halvorson
formato 16:9
sottotitoli Ing., Fr., Ted., Cor., Cin.
dvd Dg 0743891
prezzo 23,70

 

verdi-falstaffo

Robert Carsen (nel quadro d’una coproduzione Londra-Milano-Amsterdam-New York: soluzione senz’altro risparmiosa, ma deleteria sul fronte espressivo, dato che troppo diversi sono i rispettivi pubblici perché la conduzione registica non ne risenta nell’inevitabile adeguarvisi) ambienta l’opera negli anni Cinquanta, in un hotel-club inglese d’alto rango, con i suoi fumoir riservati agli uomini, le sale da tè, le stampe equestri sulla pesante boiserie, di gentiluomini di campagna dediti alla caccia alla volpe o alla pesca, di signore bene che prendono tè con pasticcini in una classica Oak Room (dove gli intermezzi di Nannetta con Fenton cameriere avvengono in una sorta di frame stop) mentre a casa si ritrovano nella cucina nuova fiammante che allora si chiamava “all’americana”. L’idea è molto carina, ed è svolta con garbo. Solo garbo, però. La graffiante regia vera, quella tutta sui personaggi, quella che connota di solito le messinscene di Carsen, stavolta è molto più accennata che realizzata. Con trovate un po’ andanti del tipo il cavallo che “dialoga” con Falstaff durante il suo monologo al terz’atto, o caccole vere e proprie come quelle che si debbono subire nella caccia a Falstaff (c’è persino la frusta gag del “non c’è” indirizzato al minuscolo cassetto aperto con fracasso: da un Carsen, proprio non ci se l’aspettava), nel quadro d’un generale “sopra le righe” che alla Scala era molto attenuato sia nel 2013 sia il mese scorso, rispettivamente con Harding e Gatti sul podio, e ancor più lo era ad Amsterdam, dove ancora Daniele Gatti alla testa d’una portentosa orchestra (quella del Concertgebouw, che non  per niente lo nominò subito dopo suo direttore musicale) diede dell’opera, almeno a mio avviso, la statura interpretativa migliore che mi sia capitato d’ascoltare assieme a quella – diversissima, ma la grandezza di Falstaff sta proprio nella pluralità delle sue ottiche espressive – di Arturo Toscanini. Un vero peccato, pertanto, che la videoregistrazione sia stata appannaggio di New York, tappa a mio avviso di gran lunga la peggiore.
James Levine, dopo due lunghi anni d’assenza per gravi problemi di salute, torna a uno dei suoi cavalli di battaglia. Direzione spigliata, incisiva, all’insegna della gioia del raccontare con ampie pennellate intensamente melodiche: anche a costo di sacrificare (troppo, in generale; e con un terz’atto proprio bruttino)  chiaroscuri e ripiegamenti riflessivi che invece fungerebbero da lievito segreto per i travolgenti scatenamenti ritmici. Il cast è dominato dalla contagiosa vitalità di Maestri, che conquistò non solo il Met ma tutta la città (guadagnandosi addirittura un articolo in prima pagina sul New York Times): il capillare lavoro sulla parola, riassorbito però in una linea di canto solida, morbida, duttilissima alle screziature dinamiche, concede un po’ troppo al gusto retrivo del pubblico del Met che al Falstaff vuole non solo ridere ma proprio sganasciarsi – difatti, si sganascia ogni due per tre – e della differenza col sorriso pare non abbia la minima idea. L’Alice di Angela Meade e la Quickly di Stephanie Blythe sono cantate non male, ma il loro fraseggio è assai impacciato nei dittonghi italici almeno quanto lo sono in scena causa la stazza davvero troppo extralarge: e gli ammicchi, le esagerazioni, le artefazioni vocali sono eccedenti. Un eccellente Fenton, Paolo Fanale, duetta con la sciapa Nannetta di Lisette Oropesa, mentre Franco Vassallo spinge e sforza cercando di darsi una voce grande – che comunque non ha – livellando il fraseggio a un’infilata di frasi fatte e banali che riducono Ford alla solita macchietta. Gli fanno degna compagnia Bardolfo e Pistola, caccolosissimi come da infausta tradizione: termine impietoso di riferimento tra teatro delle caccole e grande commedia, il Cajus di Carlo Bosi, un ritratto tutto in punta di bulino, asciutto, pungente, perfetto.
Elvio Giudicii

 


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