interpreti R. Willis-Sorensen, S. O’Neill, S. Holecek, G. Groissböck, A. Forsythe, M. Schmitt direttore Antonio Pappano coro e orchestra dell’Accademia di Santa Cecilia auditorium Parco della musica
ROMA – “Non ho altra ragione che di portare la musica di Beethoven al pubblico”. Ma Fidelio in forma di concerto diventa un salutare bagno di purificazione? “Non cerco nulla dietro la scelta di Fidelio se non di preparare l’opera lottando con il materiale: e questo non è una cosa pura, per me”. È con questo pragmatismo che Antonio Pappano ha inaugurato la stagione di Santa Cecilia (in onda domani su Rai5 e lunedì su Radio3) dirigendo l’unico lavoro operistico di Beethoven. Rimandando al mittente la scemenza secondo cui l’opera fatta senza regia rappresenti un incremento del suo valore. E puntando sulla soluzione di problemi squisitamente esecutivi. Il titolo ha infatti una genesi travagliata, che gli procura – nel suo assetto definitivo – tre livelli stilistici: il tono comique delle prime scene – quello dei lazzi tra Marcellina e Jaquino; il piglio eroico derivato dai modelli francesi e cherubiniani della pièce à sauvetage (l’opera “rivoluzionaria” con una liberazione finale) che prende forma da metà del primo atto e s’incarna nel personaggio terribile di Pizzarro; e la “musica dell’utopia” che Beethoven sviluppa solo nel terzo rifacimento, proiettando l’amore coniugale in una dimensione di gioia metafisica.
È lo stesso percorso tracciato nell’integrale sinfonica – le sinfonie giovanili, l’Eroica, la Nona – che Pappano ha diretto l’anno scorso, e che ora si specchia nel teatro. Il merito del direttore sta tutto in questo riconoscimento e nella maniera di dosare i passaggi da uno stile all’altro: dalla lievità “classica” del duetto iniziale e dell’aria di Marcellina agli accenti frementi e poi crepitanti sotto le minacce dell’odioso Pizzarro, ma già introdotti con accorta regia orchestrale nel terzetto tra Fidelio, Rocco e Marcellina quando “der Gouverneur” viene nominato per la prima volta e in una marcia dai toni davvero militareschi e minacciosi. All’inizio del secondo atto, sprofondati nelle prigioni dove marcisce Florestano, Pappano spalanca le porte della notte romantica e weberiana, con un ulteriore salto stilistico che prima si riverbera nelle ombre oscure riflesse dai contrabbassi sul duetto Rocco Pizzarro, qui tesi e intinti nell’inchiostro, e poi sfocia nelle espansioni liriche finali di coro e orchestra, che Pappano sente in maniera appassionata.
Forse quello che mancava rispetto a precedenti prove melodrammatiche, nonostante il predominante stacco nervoso dei tempi, era il passo narrativo unitario e incalzante, la stringente connessione tra una scena e l’altra: e l’introduzione dell’ouverture Leonora n. 3 tra le ultime scene del secondo atto, come da vecchia tradizione, non ha aiutato. Certo, per come è stata eseguita, rinunciarvi sarebbe stato un peccato. Ma fin dall’inizio l’Orchestra ceciliana si è distinta per smalto d’insieme e flessibilità dei soli d’orchestra, superata soltanto dalla miracolosa compattezza del coro preparato da Ciro Visco. Piace la scelta di un Florestano, Simon O’Neill, squillante e chiaro fino alla nasalità, a surrogare le prerogative di un eroismo antico, rossiniano. Pizzarro e Rocco, rispettivamente Sebastian Holecek e Günther Groissböck (già maliardo Ochs alla Scala), hanno voci sovrabbondanti e – solo nel primo caso – di espressività tonitruante. Don Fernando Julian Kim è il più “musicista”, pronuncia la morale d’opera (“ogni fratello cerca il fratello” ecc.) con accenti toccanti, a scapito degli affondo sulle note gravi. Voci importanti, comunque, tra le quali la più penalizzata era proprio quella di Rachel Willis-Sorensen: una Leonore troppo leggera, molto strumentale e un poco anonima.
Andrea Estero