Strauss Don Juan Ein Heldenleben Liszt Concerto per pianoforte e orchestra n. 2 pianoforte Alessandro Taverna direttore Fabio Luisi orchestra Filarmonica della Scala teatro alla Scala
MILANO – La caratura del direttore non ha bisogno di dispiegarsi, si manifesta nei primi secondi, per come stacca l’incipit del Don Juan. Pensando a un unico suono, una sola scarica di elettricità, un’iniezione di energia violenta e fredda su cui trascina gli archi d’orchestra. Fabio Luisi mette la firma in testa al concerto della Filarmonica della Scala. E mantiene l’impronta fino alla fine, insegnando cosa significa preparare una compagine, e poi serrarla e tenerla in pugno. Vuol dire trascinarla efficiente in ogni percorso, per quanto vitalistico e sfrenato, con un controllo pieno e quasi disumano, ma nello stesso tempo totalmente partecipe. Essere fuori e dentro l’orchestra. Anche nella gestione dei dettagli che si sommano polifonicamente, e che il direttore segue, comprende, sbalza tutti, restituendo della partitura un’immagine prismatica. Come di una realtà (in)decifrabile e imprendibile. Lo Strauss di Luisi è quello che vorremmo sempre sentire: consapevole che la velocità non è solo virtuosismo, ma sostanza di una modernità famelica e bruciante, che consuma un mondo di figure massime e minime che si avvicendano senza sosta. Luisi le scolpisce fino all’ultima, curando il dettaglio timbrico e il suo risvolto orchestrale “realistico” (ascoltare il contrappunto di strumenti a fiato nell’episodio degli avversari in Una vita d’eroe, o il crepitìo del rullante nel successivo campo di battaglia), ma senza celebrarle al di sopra del vero dio Tutto. E la Filarmonica, così sollecitata, lo segue con una bravura estrema, ripagandolo con lo stesso splendente oro interpretativo ed esecutivo. Per non dire dei momenti lirici, restituiti con voluttuoso ma artificiale abbandono: l’estasi al quadrato. Come nell’episodio della compagna dell’eroe, condotto con fraseggio libero e svettante dal violino di Francesco De Angelis, in un vero e proprio concerto solistico nel poema. E a proposito di Concerti, c’è da segnalare il debutto in Filarmonica del pianista Alessandro Taverna nel Secondo di Liszt. Uno dei nostri, verrebbe da dire dopo la serie infinita di star internazionali che popolano il palco da solisti. Taverna non sfigura, tutt’altro. Fa un Liszt rifinitissimo ed elegante. Affronta le scariche di note con un controllo che gli permette di cavare sempre il risvolto espressivo. E questo è un bene. A volte però gli manca la capacità di rischiare e di stupire. La vertigine non c’era neanche nella lisztiana Parafrasi da Rigoletto data come bis, tra le più corrette mai sentite ma povera di pathos. Anche Liszt, invece, ha bisogno di estasi.
Andrea Estero