A ogni verifica di palcoscenico importante di Lulu come questa romana (ripresa dall’originale nata nel 2015 al Metropolitan, in coproduzione con la English National Opera e la Nationale Opera di Amsterdam), una discussione anima gli appassionati di teatro musicale. Quale delle due opere di Berg riassume meglio l’autore e i dubbi del secolo breve? Non fosse rimasta incompiuta, quindi con ritardi nella fruizione ordinaria, ulteriormente protratta dagli scetticismi pregiudiziali suscitati dal completamento di Friedrich Cerha – bene ha fatto l’Opera a ripubblicare il saggio storico di Pierre Boulez, che non la prende larga per mettere al muro il presappochismo dei detrattori, falsi filologi – anche il pubblico sarebbe consapevole che la ricchezza musicale e drammat(urg)ica di Lulu sono irrinunciabili e (forse) ancor più audaci rispetto a quella di Wozzeck. La narratività lineare dell’allestimento di William Kentridge registicamente realizzata da Luc De Wit con i costumi di Greta Goiris, favoriva il dibattito. Centinaia di schizzi e disegni dello stesso Kentridge erano “mossi” ora in stop motion ora come burattini di carta (progetto animato da Catherine Meyburgh e Kim Gunning) sul grande schermo che faceva da fondale creando un continuo vortice di abbinamenti e rimescolamenti, anche attraverso l’uso non ornamentale delle luci (Urs Schönebaum). Pur astenendosi da un lavoro di approfondimento registico sull’interpretazione gestuale dei personaggi (mentre quella plastico-simbolica era presente e sottile: fin dall’onnipresente “doppio” in veste di pianista di Lulu, nelle maschere, negli inserti disegnati usati come giganteschi post-it, nei movimenti lentamente coreografati dei mimi) l’impianto creava uno spazio ideale per l’immaginazione. Disegni fermi e animati a china, tinta grafico-pittorica tra Guido Crepax (il ritmo geometrico delle tavole di Valentina/Louise Brooks) e Mornau, Kirchner e Pabst, ma con un’idea formidabile: l’inchiostro nero che “vive” e palpita come il sangue che scandisce l’ascesa-e-caduta della protagonista: ferita e “urlo” insieme, eco grafico della tragedia e tragedia fisicamente rappresentata. Altra formidabile trovata, illustrativa più che drammatica e narrativa come alla fine risultava la firma della graphic novel di Kentridge, era la continua frammentazione delle immagini, sempre in marionettistico (vedi alla voce Kleist) movimento: tant’è che l’inserzione del film nel II atto non parve mai così naturale e narrativamente – qui sì – efficacissima.
Certo, nella testa – non solo attorno – di Lulu succedono molte (altre) cose, e la musica di Berg con i suoi percorsi labirintici ma imbullonati con la forza degli spunti tematici e dell’elaborazione li sollecita e annoda con meravigliosa lucidità. Poi li riaggancia alla memoria rendendoli emozioni pure. L’accurata concertazione di Alejo Pérez non usava la forza indagatrice del bisturi (e dei freddi disegni a china di Kentridge) ma si accontentava di estrarre quel che di post-pucciniano la ricchissima partitura regala: il pennello morbido al posto della punta del pennino, cioè. Ma ci stava, perché tutta l’omogenea compagnia di canto era “melodrammaticamente” orientata. Dalla protagonista Agneta Eicheholz sicura nel registro acuto ma un po’ anonima nei dialoghi sferzanti, a Martin Gantner (ottimo Dottor Schön: una parte che difficilmente delude) a Charles Walkman che – seduto e col leggio in palcoscenico la sera della prima, a sostituire il titolare all’improvviso inabile – ha cantato senza inquietudini come Alwa (mentre l’azione scenica era sostenuta da De Wit, con un effetto straniante che pareva parte calcolata della regia). Eccellenti Willard White, Zachary Altman e Eleonora de la Peña (Schigolch, Atleta e Quindicenne), un po’ pallida Jennifer Larmore come Geschwitz ma nell’insieme la lunga locandina era più che soddisfacente. E il respiro sbalorditivo e soffocante dell’ultimo vero “urlo” (melo)drammatico del Novecento musicale c’era tutto.
Angelo Foletto
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